Con l’accordo tra Berlino e Bruxelles sugli e-fuel si è tornato a parlare anche di biofuel, in italiano biocarburanti. Oltre a essere diventati una questione di politica energetica internazionale che ha visto giocare Italia e Germania su due fronti avversi, vi sono differenze sostanziali tra questi due tipi di combustibili. Un’ulteriore tipologia di combustibili sono i cosiddetti combustibili solari, meno popolari nell’attuale dibattito pubblico, ma oggetto di diversi studi. Qui discuteremo unicamente di combustibili liquidi, dato il loro ruolo soverchiante nel sistema dei trasporti, tralasciando quelli gassosi, essenzialmente metano e idrogeno.
Gli e-fuel
Gli e-fuel sono combustibili sintetici, liquidi o gassosi, prodotti attraverso processi che utilizzano energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili. Trasformando l’energia elettrica in energia chimica, gli e-fuel si candidano tra i possibili sostituti dei combustibili fossili tradizionali, per favorire la defossilizzazione del settore dei trasporti. Gli e-fuel, una volta prodotti, sono sostanzialmente identici ai combustibili tradizionali prodotti da idrocarburi fossili, quindi compatibili sia con le attuali infrastrutture di trasporto, distribuzione e stoccaggio, sia con i veicoli in circolazione.
Sebbene il dibattito su questi tipi di combustibili sia recente, la storia dei combustibili sintetici comincia nel 1925 quando i chimici tedeschi Franz Fischer e Hans Tropsch brevettarono l’omonimo processo, detto appunto di Fischer-Tropsch. Si tratta di un processo chimico industriale, utilizzato per produrre combustibili sintetici a partire da una miscela gassosa di monossido di carbonio e idrogeno (il cosiddetto gas di sintesi o syngas), che richiede temperature comprese nell’intervallo 150-300 °C, pressioni tipicamente tra 10 e 40 bar e un letto catalitico costituito da ossido di cobalto, cobalto metallico e altri componenti. Grazie a questo processo, la Germania nazista ottenne idrocarburi a partire dalla gassificazione del carbone, proveniente dalla regione della Ruhr, durante la Seconda guerra mondiale, ovviando così al fabbisogno di petrolio importato dall’estero.
Con gli e-fuel invece non si ricorre più alla gassificazione del carbone. L’idrogeno è prodotto mediante l’elettrolisi di acqua dolce, utilizzando energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili, il monossido di carbonio (CO) è ottenuto attraverso processi chimici da CO2, a sua volta idealmente ottenuta da separazione e cattura di emissioni in atmosfera di grandi impianti industriali.
Già oggi è possibile ottenere per elettrosintesi prodotti chimici come il monossido di carbonio e l’etilene, partendo da reagenti abbondanti come CO2 e acqua, anche se il processo non è particolarmente efficiente. Secondo un articolo pubblicato su Science, la produzione per elettrosintesi di molecole semplici, come l’idrogeno, ha raggiunto un’efficienza superiore al 60%, mentre la produzione di composti con solo due atomi di carbonio, come l’etilene e l’etanolo, in genere converte solo il 35% circa dell’energia elettrica, sebbene per l’etanolo alcuni dispositivi sperimentali abbiano raggiunto un’efficienza dell’80%. Invece, per molecole con tre o più atomi di carbonio, l’efficienza scende al di sotto del 10% per due motivi: in primo luogo, ogni volta che vengono formati nuovi legami, si perde un po’ di energia; inoltre, la sintesi degli idrocarburi più complessi inevitabilmente porta alla formazione di diversi prodotti secondari, che rende necessari processi di purificazione per separare il composto desiderato, con un inevitabile costo aggiuntivo.
L’utilizzo di fonti rinnovabili per la produzione di questi combustibili sintetici, unito alla loro elevata densità energetica, permetterebbe un possibile impiego anche come sistemi di stoccaggio energetico, per bilanciare l’intermittenza della produzione di energia elettrica, tipica di diverse fonti rinnovabili.
Per essere pienamente sostenibili, gli e-fuel dovrebbero compensare interamente le emissioni di CO2 generate durante la combustione con quella catturata per la loro produzione. Secondo un’analisi condotta da Concawe, un’associazione che raccoglie diverse compagnie petrolifere per svolgere ricerche su temi ambientali rilevanti per il settore, gli e-fuel possono ridurre le emissioni di CO2 rispetto ai combustibili fossili di un valore compreso tra l’85 e il 96% su base Well-to-Tank, ovvero dalla fase di produzione del combustibile sino alla consegna alla pompa del carburante.
Tuttavia, i presunti vantaggi sarebbero notevolmente ridimensionati dagli elevati costi energetici per la produzione di questi combustibili. Secondo uno studio pubblicato su Nature Climate Change nel 2021, l’utilizzo di e-fuel in un motore a combustione interna di un’autovettura richiede circa cinque volte più elettricità rispetto all’utilizzo diretto di quella elettricità in un veicolo a batteria di categoria equivalente. In altre parole, con l’elettricità impiegata per produrre l’e-fuel necessario per far muovere una singola vettura a motore endotermico, si potrebbero alimentare direttamente circa cinque vetture elettriche di pari categoria.
In merito ai costi di produzione degli e-fuel, un’analisi condotta dall’International Council on Clean Transportation (ICCT) stima che nel 2035 questi saranno ancora quattro volte superiori rispetto ai combustibili derivati del petrolio.
I biocarburanti
I biocarburanti sono carburanti liquidi, come per esempio il biodiesel e il bioetanolo, o gassosi ricavati dalla biomassa.
In base all’origine delle biomasse, possiamo distinguere tre generazioni di biocarburanti:
- I biocarburanti di prima generazione sono prodotti da colture alimentari come mais, canna da zucchero o colza. Essi costituiscono la maggior parte dei biocarburanti utilizzati oggi;
- I biocarburanti di seconda generazione (o biocarburanti avanzati) derivano da biomasse lignocellulosiche, colture non alimentari su terreni marginali, residui agricoli e forestali e rifiuti domestici o industriali;
- I biocarburanti di terza generazione sono noti anche come algae fuel o oilage poiché sono prodotti dalle alghe. Le alghe possono essere impiegate per produrre tutti i tipi di biocarburanti come biodiesel, benzina, butanolo, propanolo ed etanolo con rese elevate, circa dieci volte superiori rispetto al biocarburante di seconda generazione. Tuttavia l’implementazione della coltivazione algale su larga scala presenta diversi ostacoli tecnici ed economici, a partire dalla collocazione degli impianti stessi.
Da un punto di vista chimico, attualmente vi sono sul mercato due tipi principali di biocarburanti: il bioetanolo e il biodiesel. Il bioetanolo altro non è che etanolo, un alcol prodotto mediante fermentazione alcolica di biomassa ricca di zuccheri per opera di alcuni lieviti come il Saccharomyces cerevisiae, il comune lievito di birra, in grado di convertire alcuni zuccheri in alcol. Il bioetanolo può essere utilizzato in miscela con la benzina, senza apportare modifiche ai motori. Con il cosiddetto motore flex, diffuso per esempio in Brasile, un’auto può utilizzare indifferentemente benzina, etanolo o una qualsiasi miscela dei due. Il biodiesel, come è intuibile dal nome, può sostituire il diesel fossile. A differenza del bioetanolo, la biomassa di partenza non deve essere ricca di zuccheri, bensì di oli e grassi. Questi ultimi sono sottoposti a reazioni di transesterificazione per ottenere il biocombustibile.
Come ricorda Nicola Armaroli, Dirigente di Ricerca presso l’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività (ISOF) del CNR di Bologna: «A questi vanno aggiunti i combustibili HVO ossia oli vegetali idrotrattati, un biodiesel inizialmente prodotto in gran parte a partire dall’olio di palma trattato con idrogeno. Questa pianta è coltivata principalmente in Malesia e Indonesia, in terreni che sono stati deforestati proprio per destinarli alla produzione intensiva di olio di palma, che trova largo impiego anche nell’industria alimentare e cosmetica. A causa dell’elevato impatto ambientale di queste piantagioni estensive, molte industrie alimentari hanno smesso di utilizzarlo. Per la stessa ragione, anche diverse aziende petrolchimiche stanno in parte sostituendo l’olio di palma, per esempio con l’olio da cucina usato. Sebbene l’HVO abbia un impatto ambientale minore rispetto ai combustibili fossili, il suo impiego non può azzerare le emissioni perché tutta la filiera di raccolta della materia prima, produzione industriale e trasporto è in larga parte basata sui combustibili fossili. Inoltre, la produzione di combustibili da materiali di scarto è limitata dalla materia prima, a cominciare proprio dall’olio alimentare usato, anch’esso in larga parte proveniente da filiere di importazione, come riportato dal report periodico del GSE».
Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) i biocarburanti possono svolgere un ruolo importante nella decarbonizzazione dei trasporti fornendo una soluzione a basse emissioni di carbonio per le tecnologie esistenti, come i veicoli leggeri e gli autocarri pesanti, e in un futuro anche per navi e aerei.
Nel 2021 i biocarburanti hanno coperto il 3,6% della domanda globale di energia per i trasporti, principalmente per il trasporto su strada. Nello scenario Net Zero, il contributo dei biocarburanti ai trasporti dovrebbe quadruplicare al 15% nel 2030, rappresentando quasi un quinto della domanda di carburanti per i soli veicoli stradali.
Anche per i biocombustibili non mancano gli svantaggi. I biocarburanti di prima generazione hanno diverse criticità: l’aumento della loro produzione causa la competizione tra terreni destinati alla produzione alimentare umana, e quelli destinati alla produzione energetica. Un altro effetto negativo è causato dal cambiamento indiretto della destinazione dei terreni (Indirect Land Use Change ILUC), che può verificarsi quando terreni precedentemente destinati alla produzione di alimenti o mangimi sono convertiti alla produzione di biocarburanti. In tal caso, la domanda di alimenti e mangimi, che comunque deve essere soddisfatta, può portare all’espansione delle attività agricole verso terreni che catturano elevate quantità di carbonio, come le foreste, le zone umide e le torbiere, causando un incremento a catena delle emissioni di gas serra.
Collegato al cambio della destinazione dei terreni, c’è il tema della biodiversità trattato da diversi studi. Secondo uno studio pubblicato nel 2021, sia le colture per la produzione di biocarburanti di prima generazione e, in misura minore, quelle per la produzione di biocarburanti di seconda generazione, riducono la biodiversità locale. Secondo gli studiosi, la resa energetica del biocarburante da diverse colture influenza gli impatti sulla biodiversità per unità di energia generata; dunque, è un aspetto da tenere in considerazione per prendere decisioni sostenibili sull’uso del suolo.
Secondo dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, disponibili al 2021, la stragrande maggioranza della produzione di biocarburanti utilizza attualmente le cosiddette materie prime convenzionali, come canna da zucchero, mais e soia, dunque ascrivibili a quelli di prima generazione. Di conseguenza, l’espansione della produzione di biocarburanti verso materie prime avanzate, ossia seconda generazione, è fondamentale per garantire un impatto minimo sull’uso del suolo, sui prezzi di alimenti e mangimi e su altri fattori ambientali. Nello scenario Net Zero, i biocarburanti prodotti da rifiuti, residui e colture dedicate che non competono con le colture alimentari, dovrebbero costituire circa il 50% dei biocarburanti consumati nel 2030, rispetto a una stima dell’8% nel 2021. L’olio da cucina usato e i grassi animali di scarto forniscono oggi la maggior parte delle materie prime non alimentari per la produzione di biocarburanti. Dato che queste materie prime sono limitate, sarà necessario commercializzare nuove tecnologie per espandere la produzione di biocarburanti per colture non alimentari.
Secondo un report realizzato dall’istituto IFEU (Institut für Energie- und Umweltforschung) e commissionato da Transport & Enviroment, una federazione di ONG che operano nel campo dei trasporti e dell’ambiente, la produzione di colture per i biocarburanti consumati in Europa richiederebbe tra i 53 mila e i 96 mila chilometri quadrati di terra. Si consideri come riferimento che l’Italia ha una superficie di poco più di 300 mila chilometri quadrati. Sempre secondo lo studio, se questa terra fosse restituita al suo stato naturale potrebbe assorbire circa 65 milioni di tonnellate di CO2 dall’atmosfera, quasi il doppio del risparmio netto di CO2 dichiarato ufficialmente dai biocarburanti che sostituiscono i combustibili fossili. Inoltre, l’utilizzo del terreno per impianti fotovoltaici sarebbe molto più efficiente. Infatti, la coltivazione di piante necessarie per alimentare un’auto che utilizza biocarburanti richiede 40 volte più terreno rispetto al terreno occupato da un impianto fotovoltaico per alimentare un’auto elettrica.
A questo, Armaroli aggiunge che «il motore endotermico, a prescindere dal tipo di combustibile che gli mettiamo dentro, ha un’efficienza del 25% circa, quindi la gran parte dell’energia prodotta dalla combustione non va alle ruote ma viene sprecata come calore. Mentre il motore elettrico ha un’efficienza tra l’80 e il 90%; dunque, sarebbe meglio utilizzare i biocarburanti e gli e-fuel che si riusciranno a produrre principalmente per navi e aerei, per loro natura più difficili da decarbonizzare in altro modo».
Gli Stati Uniti dal 2007, con l’Energy Independence and Security Act, hanno massicciamente sostenuto i biocombustibili, in particolare il bioetanolo prodotto dal mais. Nelle intenzioni del legislatore l’etanolo avrebbe dovuto contribuire alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti, eppure, secondo un articolo pubblicato nel 2022 su PNAS, la rivista della National Academy of Sciences statunitense, le emissioni di gas serra sarebbero aumentate. Questo perché l’utilizzo di più mais per la produzione di biocarburanti ha portato a un aumento dell’intensità e dell’estensione della coltivazione di questo prodotto negli Stati Uniti. Inoltre, gli autori concludono che la maggior produzione di bioetanolo ha esacerbato altri problemi ambientali come l’erosione del suolo.
I combustibili solari
I combustibili solari sono carburanti sintetici ottenuti mediante processi fotochimici o fotoelettrochimici. In pratica, l’energia solare viene utilizzata per produrre direttamente combustibili, utilizzando anche in questo caso anidride carbonica e acqua come molecole di partenza. I concetti base sono discussi in questo articolo di Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani.
La possibilità di ottenere combustibili mediante reazioni fotochimiche non biologiche fu ipotizzata per la prima volta dal chimico italiano Giacomo Ciamician più di un secolo fa. L’idea di una fotosintesi artificiale è stata riproposta da alcuni scienziati dopo la crisi energetica degli anni ’70, ma solo negli ultimi anni, con la crescente consapevolezza degli ingenti danni ambientali causati dai combustibili fossili, è diventato oggetto di ampi studi.
Gli studi sulla fotosintesi artificiale sono attualmente concentrati sull’uso della luce solare per ridurre l’anidride carbonica a monossido di carbonio, etanolo o metano oppure per scindere l’acqua nei suoi elementi e ottenere molecole di idrogeno e ossigeno. Quest’ultima reazione è quella su cui si è focalizzata maggiormente l’attenzione degli studiosi, poiché, da un punto di vista cinetico, la riduzione dell’anidride carbonica è più difficile rispetto alla scissione dell’acqua.
Tuttavia, la luce diretta del sole non è in grado di causare la dissociazione diretta dell’acqua, che è incolore quindi non assorbe buona parte dello spettro solare. Di conseguenza, i sistemi fotosintetici artificiali devono utilizzare dei cosiddetti fotosensibilizzatori, cioè specie in grado di assorbire la luce solare e utilizzarne l’energia per produrre la reazione desiderata. Dal punto di vista termodinamico il processo di scissione dell’acqua allo stato liquido in ossigeno e idrogeno consente, in linea teorica, la conversione di circa il 30% dell’energia solare.
Nonostante incoraggianti progressi in laboratorio, come spiega Armaroli, «i combustibili solari sono ancora lontani dal poter essere prodotti su scala industriale. Attualmente le celle fotochimiche per la fotosintesi artificiale sono sempre realizzate a livello di prototipi. Inoltre, anche in futuro, l’efficienza che potrà raggiungere una “cella a fotosintesi artificiale” nel produrre idrogeno molecolare sarà comunque inferiore a quella di un pannello fotovoltaico connesso a un elettrolizzatore. Per esempio, un “pannello fotochimico” di 17 metri quadrati con un’efficienza del 10%, irraggiato pienamente dalla luce solare con una media di 1300 ore l’anno, produrrebbe circa 80 kg di idrogeno, pari a meno del 20% del metano consumato oggi da una famiglia italiana nel corso di 12 mesi».
In conclusione, secondo Armaroli, «l’elettrone batte sempre la molecola in termini di efficienza. Inoltre, i pannelli fotovoltaici, grazie a una produzione di energia diffusa, possono già oggi rendere indipendenti le persone nella produzione di energia, realizzando nuove forme di economia condivisa, che ancora non riusciamo neppure a immaginare. Per esempio, stanno nascendo delle specie di “Airbnb” per la ricarica delle auto elettriche. Una persona che ha in casa una stazione di ricarica alimentata da un proprio impianto fotovoltaico può offrire l’energia elettrica a chi ha bisogno di ricaricare la propria vettura, come un turista, o una qualunque persona di passaggio. Questo consente non solo un reciproco vantaggio economico, ma anche di estendere la rete di ricarica nelle zone non ancora raggiunte da colonnine pubbliche. Tutto questo e molto altro è impossibile con il sistema centralizzato della produzione, distribuzione e vendita dei combustibili – inclusi biocombustibili ed e-fuel – che sarà sempre sotto il rigido controllo di poche grandi aziende. Attenzione perché la vera partita della decarbonizzazione dei trasporti si gioca anche su aspetti come questo, ancora totalmente assenti dal dibattito pubblico. Quest’ultimo tende ormai a fossilizzarsi e polarizzarsi su aspetti spesso marginali o in via di superamento, come i costi dei veicoli elettrici o la capillarità delle reti di ricarica».
Fonte: Scienza in Rete