In questi giorni alcuni personaggi famosi sono accusati di fare greenwashing, ambientalismo di facciata. Ecco come riconoscere chi adotta questa pratica, sempre più diffusa.
Il greenwashing, letteralmente “lavaggio verde”, è un metodo che molte aziende utilizzano per ripulire la propria immagine facendola sembrare più verde di quanto non sia: si tratta di una strategia di comunicazione messa in atto da istituzioni, organizzazioni e imprese (spesso appartenenti al mondo del fast fashion, ma non solo) per mostrarsi attenti all’impatto ambientale del proprio operato, nascondendo gli aspetti meno eco-friendly della propria attività. Negli ultimi tempi il greenwashing è sempre più frequente, vista anche l’attenzione sempre maggiore che noi tutti diamo (o dovremmo dare) alla lotta ai cambiamenti climatici: per questo sempre più aziende ne fanno uso, e in modo sempre più subdolo e più difficile da scovare. Un articolo della rivista Quartz dà qualche consiglio per non farsi prendere per il naso da inquinatori sotto mentite spoglie: ecco le dritte più utili.
1. SE VEDETE ORSI POLARI, DUBITATE
Una delle tattiche più usate dalle aziende che vogliono mostrarsi green è inserire nelle proprie pubblicità immagini della natura. I protagonisti preferiti sono gli orsi polari (come quello che abbraccia il proprietario di una Nissan Leaf in una pubblicità del 2011, vedi video qui sotto) ma spesso compaiono anche altri animali, piante, pannelli fotovoltaici o semplicemente il colore verde. Un consiglio: andate in cerca di un’etichetta di verifica esterna, possibilmente di un’agenzia governativa, che certifichi l’effettiva sostenibilità dell’azienda.
2. UN PRODOTTO NON BASTA
Spesso le aziende centrano la pubblicità sull’unico prodotto sostenibile che hanno, ma i loro affari girano intorno ad attività ben poco ecologiche. Se un’azienda pubblicizza solo un prodotto sostenibile, probabilmente nasconde dell’altro: scoprite cosa cercandone il nome seguito da “emissioni/combustibili fossili” su internet, e vedete cosa salta fuori.
3. OCCHIO ALLE ETICHETTE ESG
Le etichette ESG (environmental, social and governance) sono nate nel 2005, quando l’acronimo è stato coniato in un report intitolato “Who Cares Wins”: queste etichette, sempre più utilizzate per verificare la sostenibilità di un’impresa o un’organizzazione, non sono però ancora definite in modo così rigoroso da poter essere considerate garanzia di qualità climatica. La SEC (US Securities and Exchange Commission) sta sviluppando nuove regole per il loro utilizzo, che dovrebbero garantire una maggiore trasparenza.
4. OBIETTIVI INSUFFICIENTI
Alcune aziende mirano a ridurre le proprie emissioni, ma si prefissano traguardi insufficienti o non in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Per non lasciarsi ingannare, basta verificare se il piano aziendale di sostenibilità include la riduzione delle emissioni Scope 3, ovvero le emissioni indirette che si verificano nella catena del valore di un’azienda, come ad esempio i viaggi di lavoro dei dipendenti o lo smaltimento dei rifiuti. Quartz consiglia anche di diffidare delle aziende che hanno obiettivi a 5-10 anni.
5. LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO
Un’ultima, diffusa abitudine di diverse imprese è quella di mostrare una parte (la migliore) del quadro generale. Purtroppo ogni azienda può ancora decidere se le emissioni di fornitori e clienti sono informazioni utili a potenziali investitori, e scegliere dunque di tacere gli aspetti meno sostenibili. Ancora una volta, la SEC ha proposto nuove regole per rendere più dettagliate e uniformi le informative climatiche (in inglese climate disclosure) con cui le aziende dichiarano il proprio impegno ambientale. Nel frattempo, bisogna tenere gli occhi aperti e cercare di non farsi ingannare perché, come diceva papa Pio XI, «A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina».
Fonte: Focus