Puntare tutto sullo stoccaggio di carbonio nelle foreste per mitigare le emissioni di CO2 e i cambiamenti climatici potrebbe essere la scelta sbagliata. La buona notizia è che esistono altre pratiche forestali “climaticamente intelligenti”.
Incendi estremi, siccità, tempeste di vento, deforestazione, attacchi parassitari: le minacce alle foreste della Terra sono sempre più evidenti. Nel 2020 la superficie forestale del Pianeta ha continuato a diminuire, e nell’anno della grande pandemia e del suo spillover abbiamo iniziato a chiederci se il degrado globale delle foreste non rappresenti una seria minaccia alla nostra sicurezza e alla nostra salute. Una domanda che in realtà avremmo dovuto porci già da molto tempo, perché foreste intatte e in buona salute sono determinanti nella lotta contro l’altra grande sfida del nostro tempo. Una sfida ancora più ampia e pericolosa di quella pandemica: la lotta alla crisi climatica.
Le foreste come serbatoi di carbonio
L’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è considerato il principale responsabile del riscaldamento globale. Gli ecosistemi terrestri, e soprattutto le foreste, assorbono attualmente circa il trenta per cento del carbonio di origine antropica. Il ruolo degli ecosistemi forestali nella regolazione del clima e nell’assorbimento di anidride carbonica è riconosciuto dall’Accordo di Parigi: gli Articoli due, quattro, cinque e sette attribuiscono alle foreste il ruolo di “serbatoio di carbonio”. Un serbatoio che può aumentare o diminuire la sua capacità, come conseguenza dei cambiamenti nella superficie coperta dalle foreste a livello globale, dello stress causato dalla siccità e dagli eventi estremi come gli incendi boschivi, e della gestione forestale e del suolo. L’uomo può infatti essere determinante per bilanciare emissioni e assorbimenti di carbonio nelle foreste, facendo pendere la “bilancia” verso le prime (source) o verso i secondi (sink) a seconda del modo in cui sceglie di intervenire sull’ecosistema forestale.
Tuttavia, le conseguenze della gestione forestale sull’assorbimento di carbonio sono difficili da prevedere: l’intensità del sink dipende da molti fattori che si influenzano l’un l’altro, come la velocità di accrescimento degli alberi, la durata della loro vita, la pioggia e la temperatura, la quantità di acqua e di sostanze nutritive disponibili nel suolo. Ad esempio, l’aumento della CO2 atmosferica potrebbe fare da “fertilizzante” per gli alberi accelerando la loro crescita. Ma gli alberi che crescono più velocemente hanno una vita più breve, e dissipano prima degli altri gli eventuali vantaggi in termini di maggiore assorbimento di carbonio durante la loro rapida crescita. Il risultato netto è che il sink forestale è già in diminuzione, come dimostrato da recentissime ricerche a scala sia globale che continentale, come per la foresta Amazzonica o addirittura per le foreste europee.
Inoltre, per calcolare correttamente l’effetto della gestione forestale sul bilancio del carbonio, occorre tener conto degli scenari alternativi: cosa succederebbe se una certa scelta gestionale non venisse effettuata? Come proseguirebbe a svilupparsi il sink forestale? Quali emissioni supplementari si genererebbero per produrre i materiali o l’energia richiesti? A quali rischi climatici andrebbe soggetto il bosco?
Quale gestione per le foreste europee?
Anche in Europa si è acceso recentemente il dibattito sul modo migliore per potenziare il ruolo delle foreste nella lotta ai cambiamenti climatici. Un dibattito difficile, non solo per le complessità scientifiche e le incertezze nei dati che rendono difficile prevedere le “conseguenze carboniche” della gestione forestale in tutte le loro ramificazioni, ma anche perché i riferimenti legislativi che regolano la contabilità del carbonio sono macchinosi, e la loro comunicazione verso un pubblico non esperto risulta difficile, come anche la discussione sul piano politico. Spesso il dibattito è frammentato, enfatizzando di volta in volta solo alcuni aspetti: il carbonio già depositato nelle foreste e nei loro suoli (stock), il contributo alla mitigazione climatica attraverso l’uso delle bioenergie, l’adattamento delle foreste ai cambiamenti climatici nel lungo periodo, la conservazione del suolo e della biodiversità. A scala globale, inoltre, gli strumenti di cooperazione economica deputati a ridurre le emissioni di gas serra dovute alla deforestazione e al degrado delle foreste (REDD+), attraverso i quali i Paesi ricchi aiutano i Paesi in via di sviluppo a proteggere le loro foreste, non si sono sempre dimostrati efficaci o credibili: troppe volte, appena il pagamento aveva avuto termine, la perdita di copertura forestale ha accelerato sensibilmente, dimostrando che, senza programmi permanenti, la protezione delle foreste non è garantita.
In Europa (28 paesi Eu, inclusa la Gran Bretagna) la copertura forestale è di circa 161 milioni di ettari, il 37 per cento della superficie totale. Le foreste europee, l’85 per cento delle quali è soggetto a una qualche forma di gestione, forniscono circa 447 milioni di metri cubi di legno ogni anno, e circa il 70 per cento dell’incremento corrente (cioè del legno che si forma ogni anno) viene prelevato, con ampie variazioni geografiche. Poiché il tasso di prelievo è inferiore all’incremento, le foreste europee sono in crescita: dal 1990 a oggi la quantità di massa arborea vivente è aumentata del 38 per cento e la superficie del nove per cento. Attualmente, la capacità di assorbimento del carbonio delle foreste europee rappresenta più del dieci per cento delle emissioni di gas serra. La capacità sostitutiva dei prodotti forestali (cioè la realizzazione di manufatti legnosi, come quelli usati nell’edilizia o nell’industria del mobile, in sostituzione di prodotti più climalteranti, come il cemento, l’acciaio o la plastica) rappresenterebbe un ulteriore due per cento delle emissioni di gas serra della Eu. Un potenziale che potrebbe ulteriormente crescere con politiche incentivanti a scala regionale, in supporto alle pratiche di riforestazione, di gestione sostenibile e di sostituzione.
Molte proposte sottolineano la necessità di aumentare ulteriormente la superficie forestale (come la Strategia europea per la biodiversità al 2030, che prevede l’impianto di tre miliardi di alberi nel continente) e la quantità di carbonio immagazzinato nelle foreste esistenti, diminuendo o interrompendo il prelievo di legno. È certamente vero che strategie di mitigazione climatica basate sulla conservazione del buono stato di salute delle foreste porterebbero con sé benefici sia per la conservazione della biodiversità che per l’erogazione dei servizi ecosistemici di varia natura. Tuttavia, puntare tutto sull’aumento dello stoccaggio di carbonio nelle foreste per mitigare le emissioni di CO2 e quindi contenere l’aumento delle temperature entro i 2 gradi a fine secolo, come richiesto dagli accordi internazionali, potrebbe essere un errore. Le politiche tese alla sola mitigazione non considerano, infatti, i rischi derivanti dagli impatti negativi degli eventi climatici estremi, anch’essi in aumento come conseguenza della crisi climatica. Episodi di moria diffusa del bosco sono stati osservati ripetutamente a scala globale: gli stress cronici (come la mancanza d’acqua) producono pericolose conseguenze sul ciclo del carbonio, sia liberando in atmosfera gran parte del carbonio immagazzinato in foresta alla morte degli alberi, sia riducendo in prospettiva la capacità di assorbimento del carbonio negli ecosistemi forestali. Inoltre, agli stress cronici si sommano processi ecologici di lungo periodo, come i cambiamenti della composizione specifica delle foreste (con le specie che tendono a migrare verso nord e in alta quota), e grandi e improvvisi eventi di disturbo, quali i mega incendi forestali, le infestazioni di insetti e le tempeste di vento, come è accaduto nel 2018 con la tempesta Vaia.
A meno che non cambi l’orientamento tradizionale alla pianificazione forestale e agli investimenti per lo sviluppo sostenibile del settore, c’è quindi il rischio di sprecare risorse umane e finanziarie, producendo sistemi forestali incapaci di fronteggiare le sfide del cambiamento climatico. Per garantire la conservazione del sink di carbonio nel lungo periodo, ottemperando agli accordi internazionali sul clima, è quindi necessario quantificare i pericoli che minacciano gli ecosistemi forestali e potenziare le loro capacità di adattamento ai fattori climatici e di disturbo. In pratica, a una visione carbonio-centrica, che ha in parte rimpiazzato nell’interesse dei media e dei cittadini l’approccio forestale “classico” focalizzato sulla sola produzione di legno, occorre affiancare una prospettiva climaticamente intelligente, che esplori gli aspetti legati al bilancio energetico e al ciclo dell’acqua oltre a quello del carbonio, e che valuti le sinergie e i compromessi fra strategie di adattamento e mitigazione (per poter mitigare efficacemente le foreste devono resistere ai disturbi!), gli effetti di sostituzione e leakage, e i benefici legati alla conservazione della biodiversità e alla fornitura degli altri servizi ecosistemici.
Elementi per un approccio climate-smart
La climate-smart forestry si è sviluppata negli ultimi cinque anni in Europa, estendendo alla gestione forestale l’esperienza della climate-smart agriculture che ha come obiettivo quello di mantenere la sicurezza alimentare (aumentare cioè la produzione di cibo e al tempo stesso l’adattamento ai cambiamenti climatici), scongiurare il degrado dei suoli e contribuire alla lotta al riscaldamento globale. Avere un approccio climate-smart alla gestione forestale significa integrare strategie di mitigazione e adattamento, assicurando nel contempo la fornitura dei servizi ecosistemici di produzione (legno e altri prodotti), di regolazione (protezione dal dissesto, biodiversità) e culturali (ricreazione, turismo, salute).
Sebbene la capacità di accumulare carbonio delle foreste europee stia mostrando i primi segni di saturazione, molti modelli previsionali indicano che il sink potenziale può continuare a crescere come risultato dell’applicazione di forme di gestione e di governance alternative. Ma non si tratta solo di ridurre le emissioni di gas serra e aumentare gli assorbimenti, aspetto su cui si sono concentrati i primi lavori scientifici di valutazione dell’impatto carbonico di diverse scelte selvicolturali. Oltre a questo, occorre integrare nelle strategie climate-smart anche l’adattamento delle foreste e del settore forestale intero al clima che cambia, e la loro dimensione sociale, sviluppando misure forestali adeguate alle esigenze specifiche delle diverse regioni e attivando relazioni sinergiche fra bioeconomia e biodiversità.
Un aumento della produttività forestale e delle capacità di stoccaggio del carbonio attraverso misure alternative di climate-smart forestry supporterebbe infatti anche la conservazione della biodiversità, ad esempio promuovendo boschi misti e più maturi, e contemporaneamente lo sviluppo della bioeconomia sostituendo acciaio e cemento come materiali da costruzione per un abitare sostenibile (bioedilizia con legno lamellare) e creando tessuti e imballaggi a base di legno. Le strategie di mitigazione che verranno adottate, infatti, dovranno considerare le esigenze di trasformazione dell’industria basata sui combustibili fossili (edilizia, chimica, tessile…) verso soluzioni facenti riferimento alla bioeconomia circolare. Ciò è necessario per garantire la decarbonizzazione del sistema economico e produttivo attuale, mentre la domanda di energia e materiali da parte di una popolazione mondiale è costantemente crescente.
Inoltre, una gestione forestale proattiva può ridurre le emissioni dovute ai disturbi, come gli incendi forestali o gli schianti da vento, favorendo sistemi e strutture forestali più resilienti in aree a rischio. Infine, l’abbandono di aree agricole e di aree marginali di scarso valore per la conservazione della biodiversità rappresenta un’opportunità per espandere le aree forestali e le piantagioni da biomassa per scopi energetici. Queste forme di intensificazione sostenibile consentirebbero di destinare a riserva aree forestali di particolare interesse naturalistico, dove la conservazione della biodiversità è lo scopo prioritario.
Buone pratiche climaticamente intelligenti
La pianificazione forestale si basa sulla conoscenza di come la foresta si sviluppa nel tempo, cioè come risponde alle pratiche gestionali e ai disturbi naturali. La rapidità dei cambiamenti climatici e la dinamica dei disturbi limitano la capacità di prevedere tale sviluppo e rendono difficile anticipare gli impatti sui sistemi forestali, che hanno tempi di crescita e maturazione pluridecennali. Con il perdurare delle perturbazioni climatiche, il sistema diventa instabile e può arrivare ad un punto di rottura, oltre il quale la qualità e la quantità dei servizi forniti dalla foresta non sono più garantite. Se l’ecosistema forestale supera la soglia di resilienza, possono anche innescarsi processi di moria del bosco, che rischia di trasformarsi in un ecosistema non forestale.
Come scongiurare questo rischio? Prima di tutto, sviluppando strumenti per stimare la sensibilità della foresta ai disturbi e indicatori per valutare la sua vulnerabilità alla trasformazione. Se vengono individuati in anticipo i possibili punti di rottura del sistema, gli interventi selvicolturali possono guidare la transizione e consentire al sistema forestale di adattarsi alle nuove condizioni, minimizzando la perdita della capacità di erogare servizi ecosistemici (selvicoltura adattativa). Esempi di questo approccio all’accompagnamento della foresta verso nuove condizioni sono i diradamenti per ridurre la competizione per le risorse idriche (ridotte a causa del riscaldamento globale), la piantagione di specie più adatte alle nuove condizioni ambientali, l’allungamento dei periodi di taglio, la conversione del bosco ceduo in alto fusto e gli interventi di incremento della complessità strutturale e della biodiversità. Il monitoraggio continuo degli indicatori del cambiamento e dei risultati della gestione è fondamentale e avvicina i ricercatori ai selvicoltori. Un esempio è rappresentato dal progetto “The adaptive silviculture for climate change” (Ascc) nel quale ricercatori, gestori forestali e amministratori, attraverso il monitoraggio di diversi siti pilota, collaborano alla comprensione della risposta di lungo-periodo degli ecosistemi forestale a una varietà di scelte gestionali adattative.
Una seconda linea di azione è rivolta a promuovere l’accumulo di carbonio negli habitat degradati (cave, alvei dei fiumi, discariche, siti industriali, etc.) e al rewilding, dove opportuno, di aree urbane e agricole abbandonate. La rinaturalizzazione e il ripristino ecologico sono processi lenti, che devono essere accompagnati, creando le condizioni più opportune per una rinnovazione spontanea degli ecosistemi forestali. La rinaturalizzazione e il recupero ambientale soddisfano anche la funzione ricreativa del bosco e il benessere dell’uomo, ricollegando natura e società, come avviene nell’ambito Rewilding Europe, un’iniziativa no-profit che supporta progetti di rinaturalizzazione coinvolgendo le comunità locali e enfatizzando le capacità dei sistemi naturali di autoregolarsi.
Oltre al sequestro di carbonio nella biomassa e nel suolo delle foreste, il suo mantenimento per lungo tempo nei prodotti legnosi rallenta l’emissione della CO2 in atmosfera. Inoltre, il settore forestale produce vari materiali di scarto, che hanno la possibilità di essere utilizzati per produrre energia con un breve tempo di “parità carbonica”: residui delle operazioni selvicolturali (cimali, ramaglie residuali da interventi di taglio), utilizzazione di boschi cedui secondo criteri di gestione sostenibile, residui colturali provenienti dall’attività di manutenzione dei boschi urbani e degli impianti di arboricoltura da legno (ramaglie di potatura, espianti di fine ciclo, etc.), e dalle colture dedicate (pioppo, salice, robinia, eucalitto, destinate a impianti a ciclo colturale breve). A partire dai dati produttivi e strutturali del comparto forestale, tenendo conto del modello di filiera, si possono individuare le aree di intervento prioritario (bacini bioenergetici) e quantificare la quota potenziale di biomassa disponibile e realmente utilizzabile, considerando la struttura del comparto e l’evoluzione delle superfici a livello locale. L’European forest institute promuove l’utilizzo sostenibile delle biomasse legnose con approccio climate-smart attraverso iniziative di informazione, networking e lobbying per progetti volti a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e mettere il settore forestale al centro delle strategie europee per la bioeconomia.
Un’altra strategia climaticamente intelligente riguarda la scelta delle specie che compongono la foresta. Gran parte delle foreste europee sono state trasformate nel corso dei secoli per sostenere la domanda di legno e di energia. Foreste miste e disetanee sono, quindi, diventate boschi puri e coetanei, di conifere (es. abete rosso in Europa Centrale) o latifoglie (faggio in Appennino) e anche di specie esotiche (eucalitti in Portogallo e pino insigne in Spagna). Questi boschi “modificati” sono spesso instabili e vulnerabili ai disturbi: facilitare il ritorno del mix naturale di alberi (es. boschi misti di abete rosso, abete bianco e faggio oppure di pino silvestre e querce decidue) migliorerebbe le condizioni di crescita locali e la resistenza agli estremi climatici. Oltre alla maggiore resilienza, i boschi misti possono garantire prodotti legnosi diversificati, una maggiore scalarità dei trattamenti selvicolturali e il prolungamento del turno. Poiché la ricolonizzazione arborea necessita spazio (e quindi tagli!), la necessità di agire rapidamente nei boschi in condizioni precarie potrebbe ridurre il sink di carbonio nel breve periodo, che però rimarrebbe più stabile nel lungo periodo.
In Europa centrale, ad esempio, nei siti potenzialmente idonei ad ospitare foreste miste di faggio, abete rosso e abete bianco fin dal Medioevo si è promosso a fini produttivi l’abete rosso con il risultato di ottenere boschi strutturalmente “semplici” e vulnerabili. La vulnerabilità si è resa sempre più evidente negli ultimi anni con danni ingenti dovuti a fattori diversi, ma spesso interconnessi e sempre riconducibili ai cambiamenti climatici, come siccità, estesi attacchi di bostrico e altri patogeni. Per queste foreste è molto acceso il dibattito sul “da farsi” per evitare che si raggiunga la fase di collasso del sistema (moria del bosco), con ampie aree che si trasformerebbero da accumulatori ad emettitori di carbonio cessando di svolgere servizi essenziali per la comunità. Dal dibattito scientifico è emerso con chiarezza come la capacità di anticipare le trasformazioni indotte dai cambiamenti climatici favorendo il rinstaurarsi di un bosco misto e strutturalmente più complesso sia indispensabile per ridurre danni economici ed ambientali.
Infine, la migrazione assistita di provenienze o popolazioni di specie forestali è considerata una delle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici. Interventi di riforestazione su larga scala, che prevedano la movimentazione di popolazioni o provenienze possono, però, essere rischiosi, se guidati da una conoscenza ecologica incompleta. I modelli di distribuzione delle specie forestali possono contribuire a guidare la migrazione assistita, ma forniscono informazioni parziali per valutare la loro crescita futura e la loro resilienza ai cambiamenti climatici. Quando si introducono genotipi (o specie) in un nuovo ambiente è bene quindi ricorrere a sperimentazioni in campo (o in ambiente controllato se si utilizzano semenzali), nelle quali provenienze o popolazioni sono messe a confronto per valutarne le caratteristiche di adattamento alle nuove condizioni ambientali. Ciò richiede un coordinamento transnazionale di semi e semenzali di alberi forestali destinati a progetti di riforestazione a sostegno dell’adattamento delle foreste ai cambiamenti climatici e per iniziative di restauro forestale.
Una strategia forestale
Perché le strategie di climate-smart forestry siano efficaci, deve essere trovato un equilibrio fra le misure di mitigazione, adattamento ed erogazione dei servizi ecosistemici. Le strategie forestali nazionali sono il “luogo” politico e legislativo adeguato a incentivare pratiche di gestione forestale sostenibile e climaticamente intelligente. In Italia e per l’Unione Europea, queste strategie sono soggette in questi mesi alla condivisione e discussione con tutti i portatori d’interesse sia a scala nazionale (o sovranazionale, nel caso dell’Europa) sia locale. Se queste strategie saranno capaci di promuovere la raccolta di dati forestali accurati, la diffusione della pianificazione e certificazione di gestione sostenibile, il monitoraggio e la valutazione degli interventi effettuati e il coordinamento fra tutti i protagonisti del settore, la gestione delle foreste potrà davvero contribuire alla lotta al cambiamento climatico, al declino della biodiversità e alla promozione della salute pubblica, le tre grandi e interconnesse crisi del nostro tempo.
Fonte: LIFEGATE