Il Nono Rapporto Itinerari Previdenziali sfata alcuni luoghi comuni in materia di previdenza pubblica: tra i più duri a morire, quelli riguardanti il gender gap pensionistico e l’importo troppo basso delle prestazioni. Eppure, una migliore e corretta comunicazione dei dati gioverebbe in termini sia di disuguaglianza percepita sia di fiducia nel sistema.

“Le donne ricevono, in media, assegni di gran lunga più bassi rispetto a quelli degli uomini” e “oltre la metà delle pensioni è di importo inferiore a 1.000 euro al mese”: questi due dei principali luoghi comuni che da sempre animano il dibattito pensionistico. Affermazioni che non trovano però conferma nei dati del Casellario Centrale dei pensionati INPS rielaborati dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali nel Nono Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano. La pubblicazione dimostra infatti come, in realtà, queste convinzioni diffuse siano falsi miti da sfatare, in quanto scorrette sia dal punto di vista sostanziale dell’analisi sia sotto il profilo della comunicazione, in particolare nei confronti delle giovani generazioni.

Il divario di genere

In questi ultimi anni il concetto di gender gap è diventato indubbiamente uno dei temi caldi e l’ambito pensionistico non fa eccezione. Complici i Goals delle Nazioni Unite, gli obiettivi del PNRR e tante altre iniziative che stanno portando maggiore attenzione sul tema, il concetto di gender gap viene spesso applicato anche alle pensioni, seppure non in maniera tecnicamente corretta. Il Rapporto evidenzia che nel 2020 le donne rappresentano il 51,8% dei pensionati e percepiscono il 43,8% dell’importo lordo complessivamente pagato per le pensioni (172.771 milioni di euro pagati alle donne contro i 134.919 milioni di euro corrisposti agli uomini). Considerando il numero di pensionate, il reddito pensionistico annuo delle donne arriva a 16.233 euro contro i 22.351 euro degli uomini.

Quali le motivazioni alla base di questo divario? Innanzitutto, le donne registrano un maggior numero di pensioni pro-capite, in media 1,51 prestazioni a testa, a fronte dell’1,32 degli uomini. Rappresentano infatti il 58,6% dei titolari di 2 pensioni, il 68,6% dei titolari di 3 pensioni e il 70,5% dei percettori di 4 e più trattamenti; inoltre, prevalgono tra i percettori di pensioni ai superstiti (87% del totale), nelle prestazioni prodotte da “contribuzione volontaria”, che normalmente sono di modesto importo a causa di livelli contributivi molto bassi, e nelle pensioni integrate al minimo (85,7% del totale). Per tutti questi motivi, la maggior parte delle pensionate beneficia dell’importo aggiuntivo, delle maggiorazioni sociali e della quattordicesima mensilità. Inoltre, occorre considerare che le pensioni di reversibilità (superstiti) dei pensionati di vecchiaia dei lavoratori autonomi o dipendenti con prestazioni integrate al minimo andranno a percepire al massimo il 60% della pensione diretta e quindi prestazioni molto basse.

Affermare, dunque, in modo non analitico ma con elementare operazione di divisione, che le donne ricevono una prestazione di gran lunga minore rispetto agli uomini è sì corretto dal punto di vista formale ma non da quello sostanziale. Anche in questo caso sarebbe utile una comparazione tra prestazioni di identica tipologia. Va poi considerato che questa situazione riflette l’andamento del mercato del lavoro italiano: nel nostro Paese sia i tassi di occupazione femminile (49% contro il 67,2% degli uomini nel 2020) – soprattutto al Sud (32,5% contro 56,3%) – sia i livelli di carriera, i livelli retributivi a parità di mansioni e le carriere più discontinue hanno visto e continuano a vedere purtroppo le donne sfavorite. Occorre quindi migliorare oggi la condizione lavorativa femminile, anche tramite servizi all’infanzia che riducano la discontinuità del lavoro, per superare in futuro questo gap previdenziale tra i generi.

 

Figura 1 – Numero di pensioni percepite da ciascun pensionato per genere, valori percentuali, anno 2020

Figura 1 – Numero di pensioni percepite da ciascun pensionato per genere,
valori percentuali, anno 2020
Fonte: Nono Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano

 

I veri importi delle pensioni

Passando all’altro falso mito, quello riguardante le pensioni sotto i mille euro, occorre considerare che nel 2020 su un totale di 22.717.120 prestazioni erogate, quelle di importo fino a una volta il minimo (515,58 euro mensili) sono poco meno di 7,48 milioni, ma i pensionati che poi ricevono effettivamente un reddito pensionistico fino a una volta il minimo sono circa 2,15 milioni su 16 milioni di pensionati totali. Anche alla successiva classe di importo (da 515,19 euro a 1.031,16 euro lordi mensili) appartengono circa 7 milioni di prestazioni, ma ne beneficiano solo 3,9 milioni di pensionati. Il fenomeno dipende dal fatto che un soggetto può essere beneficiario di più prestazioni (ad esempio, una pensione di importo medio-alto e uno o più trattamenti più bassi come un’indennità di accompagnamento o una pensione di reversibilità) che si cumulano tra loro, facendo sì che il pensionato si collochi in una classe di reddito più elevata rispetto a quella più bassa in cui si erano posizionate le singole prestazioni o pensioni.

Dal rapporto tra numero di prestazioni su pensionati emerge infatti che, in media, ogni pensionato percepisce 1,416 pensioni, mediamente quasi una pensione e mezza per ciascun pensionato. Nel dettaglio, nel 2020 il 67,7% dei pensionati percepisce 1 prestazione, il 24,5% dei pensionati percepisce 2 prestazioni, il 6,6% 3 prestazioni e l’1,2% 4 o più prestazioni. È quindi certamente vero che le singole prestazioni sotto i mille euro sono circa 14,49 milioni, pari al 63,8% delle pensioni in pagamento, ma lo è altrettanto che i pensionati sono circa 6,04 milioni, ovvero il 37,7% del totale pensionati, peraltro quasi tutti con pensioni in tutto o in parte assistenziali, ossia senza contribuzione o integrate al minimo. Sostenere che oltre la metà delle pensioni è inferiore a 1.000 euro al mese non è dunque corretto né dal punto di vista tecnico né sotto il profilo comunicativo.

Dal punto di vista sostanziale, proprio perché quando si analizzano le distribuzioni per classi di reddito si dovrebbe far riferimento ai pensionati, cioè ai soggetti fisici che percepiscono una o più prestazioni, e non alle singole pensioni. Se si calcola l’importo medio della pensione sul numero totale delle prestazioni, si ottengono 13.544,40 euro annui lordi (1.042 euro lordi al mese in 13 mensilità), ma facendo riferimento al totale dei pensionati, il reddito pensionistico medio pro-capite risulta pari a 19.181 euro annui lordi (15.699 euro annui netti), quindi 1.475 euro lordi mensili (1.207 euro mensili netti). Eppure, il dato più diffuso è solitamente proprio il primo, che divide impropriamente il monte pensioni (307.689 miliardi di euro) per il numero delle prestazioni, e non per il numero dei pensionati.

Come evidenziato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, inoltre, nel calcolo degli importi medi dei singoli trattamenti pensionistici, bisognerebbe procedere per tipologia e analizzare separatamente le medie delle prestazioni assistenziali, delle rendite indennitarie, delle prestazioni dirette e di quelle ai superstiti, per evitare di mischiare prestazioni di natura non omogenea. In particolare, nel calcolo delle medie bisognerebbe eliminare dal computo le prestazioni assistenziali in quanto parzialmente o totalmente a carico della fiscalità generale, come ad esempio nel caso di pensioni o assegni sociali, pensioni integrate al trattamento minimo, invalidità civili, assegni di accompagnamento o rendite indennitarie Inail: si avrebbe così un importo medio delle sole pensioni previdenziali, supportate da contributi. O, ancora, appare ad esempio poco ragionevole calcolare l’importo medio tra pensioni dirette e pensioni ai superstiti quando queste ultime nel Casellario INPS sono frazionate nelle aliquote di reversibilità spettanti a ciascun contitolare, che variano tra il 20% (aliquota del figlio contitolare) e il 30-60% (aliquote del coniuge che variano a seconda del reddito) dell’importo della pensione diretta.

Provando dunque a escludere le prime due classi di reddito pensionistico, che sono principalmente assistenziali, il reddito previdenziale medio ammonterebbe a 26.215,58 euro annui lordi (contro gli ufficiali 19.181,21 euro lordi) pari a circa 19.737 euro annui netti. Resta quindi vero che il 37,7% dei pensionati ha redditi pensionistici inferiori a 1.031,16 euro lordi al mese, ma molti di questi redditi non sono strettamente riconducibili a pensioni, quanto piuttosto a prestazioni assistenziali. Inoltre, come rilevato nel Rapporto, in questa riclassificazione del reddito pensionistico medio occorrerebbe anche tener conto dell’età anagrafica del beneficiario, così da escludere circa 671mila pensionati con meno di 40 anni (orfani minori, invalidi o superstiti), che percepiscono oltre 809mila trattamenti, in media 1,21 trattamenti pro-capite.

L’errore più grave riguarda dunque proprio la comunicazione di questi dati: comunicazione che scatena una serie di reazioni negative dal punto di vista sia della disuguaglianza percepita tra i pensionati, sia del senso di sfiducia che genera nei giovani, i quali potrebbero lecitamente chiedersi con quale scopo versare i contributi se poi le prestazioni che riceveranno saranno tanto basse.

 

Fonte: Itinerari Previdenziali

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