Nell’85% dei casi non è un problema fisico a causare il dolore cronico ma un fenomeno di sensibilizzazione del cervello. Due terzi di chi ha seguito questo protocollo ha risolto: Yoni Ashar ha firmato lo studio.

Curare il dolore cronico – condizione che si stima affligga ben il 20% degli adulti in Europa – senza farmaci si può, con la terapia della parola. Lo suggerisce un nuovo studio pubblicato sulla rivista Jama Psychiatry da ricercatori della University of Colorado, che descrive una terapia psicologica di rielaborazione del dolore. L’approccio della terapia consiste nell’aiutare il paziente a ricordare che il dolore – in molti casi – non ha più origine nel corpo, ma nel cervello, e che non corrisponde più a un pericolo effettivo per la salute. Abbiamo intervistato uno degli autori dello studio: Yoni Ashar, ricercatore su dolore cronico ed effetto placebo per la University of Colorado.

Perché il dolore cronico fino ad oggi è stato così difficile da affrontare?

“Perché nella maggior parte dei casi i medici non trovano alcun danno fisico nel corpo del paziente. E i trattamenti esistenti non giovano molto ai pazienti con dolore cronico: per questa patologia le iniezioni di steroidi e gli interventi chirurgici spesso non giovano più del placebo”.

Perché nello studio avete scelto di concentrarvi sul mal di schiena?

“Perché è la forma più comune di dolore cronico. Si ritiene che almeno nell’85% dei casi, non è un problema fisico a causare questo dolore: si tratta invece di cambiamenti nel cervello, e nel modo in cui il cervello processa gli input sensoriali che arrivano dalla schiena. Il dolore cronico ha, alla sua base, un fenomeno di sensibilizzazione del cervello che deriva da un circolo vizioso: il dolore induce paura, la paura conduce ad essere ipervigilanti, e quindi ipersensibili, per cercare di evitare il danno fisico associato all’esperienza di dolore, ma questa ipersensibilità porta a sentire ancora più dolore”.

Mi faccia capire meglio questo circolo vizioso che sta alla base di gran parte dei casi di dolore cronico.

“Molti credono – anche perché spesso lo sentono dire dai medici – che il dolore sia un segnale di danno ai tessuti. Quindi nel caso del dolore cronico alla schiena, ci si convince che ogni volta che proviamo dolore significa che stiamo danneggiando la nostra schiena. Allora diventa normale avere paura del dolore, diventare ipersensibili alle sensazioni che provengono dalla schiena, amplificando l’attenzione verso quelle sensazioni che potrebbero segnalare un danno. Il cervello amplifica questi segnali. E così si instaura il circolo vizioso: credere che il dolore segnali sempre un danno porta alla paura. La paura conduce all’ipervigilanza. E l’ipervigilanza amplifica il dolore”.

Come si articola la terapia?

“Il primo passo è visitare il paziente e capire la causa del suo dolore. Il dolore è causato da un problema alla schiena, o da cambiamenti nel cervello? Una volta risolto questo aspetto, il terapeuta aiuta il paziente a comprendere che il dolore è un falso allarme, che la sua schiena non ha un danno. In sostanza il paziente, grazie allo psicoterapeuta, impara a riconcettualizzare il suo dolore, capendo che – seppure sia reale – non corrisponde a una vera minaccia al corpo.

Il secondo passo è condurre il paziente a prestare attenzione in modo diverso alle sue sensazioni: ovvero prestare attenzione alle sue sensazioni mentre ripete a se stesso che si tratta di un falso allarme, e che non c’è alcun pericolo o danno. Il terzo passo per il paziente è riprendere a compiere le azioni che fino a quel momento aveva evitato: ad esempio il paziente non provava più a piegarsi in avanti per non provare il dolore alla schiena. Oppure non provava più a correre. Il terapeuta chiede al paziente di tornare a farlo”.

Qual è il principio di funzionamento della vostra terapia?

“Il dolore riflette la percezione che il cervello ha di una minaccia al corpo. Ad esempio il dolore che proviamo se ci scottiamo ai fornelli ci serve a ritrarre all’istante la mano ed evitare ulteriori danni. Nel caso del dolore cronico, che come abbiamo detto si origina più dal cervello che dal corpo, diventa importante rendersi conto che la “minaccia” non è più attuale, e che non bisogna avere paura delle proprie sensazioni. Quando il paziente fa proprio questo processo di pensiero, il dolore cronico può estinguersi col tempo”.

Quali sono i risultati che avete ottenuto sui pazienti?

“Due terzi delle persone (in tutto 151: 70 uomini, 81 donne, età media 41 anni) che hanno seguito il trattamento (9 sessioni di terapia psicologica distribuite nell’arco di un mese), si sono liberate dal dolore con un effetto durato più di un anno. Una percentuale che invece si riduce al 20% nei soggetti che non hanno seguito il trattamento e hanno invece ricevuto un placebo. I trattamenti psicologici esistenti per ridurre il dolore aiutano a ridurlo, ma non di molto. Quello che invece noi mostriamo con questo studio è che si può aiutare il cervello a “disimparare” il dolore”.

“Disimparare il dolore”: ci spiega come si fa?

“Quando subiamo un trauma fisico, si scatena il dolore e questo dà il via a una serie di “apprendimenti” e di cambiamenti nel cervello. Con il tempo, e con l’esperienza continua del dolore in quel punto finché il danno fisico non guarisce, il cervello “apprende” il dolore. A quel punto il danno può guarire, ma il dolore può continuare, come se esistesse una sorta di “memoria del dolore” ancora attiva. A quel punto il dolore è stato appreso, e non riflette più un danno fisico nel corpo, ma solo un cambiamento nella mente. Quello che mostriamo con questo studio è che si può intervenire su questo: si può invertire questo processo cambiando il modo in cui il paziente si rapporta al dolore nel suo cervello”.

La vostra terapia si fonda soprattutto sulla desensibilizzazione…

“È una cosiddetta “terapia di esposizione”. Come lei sa, queste terapie consistono nel desensibilizzarsi esponendosi di continuo, in modo graduale, a uno stimolo doloroso o a una situazione che crea angoscia o fobie. Nel nostro caso la prima esposizione è quella alle sensazioni dolorose: come dicevo prima, esortiamo il paziente a prestare attenzione al suo dolore, e a imparare a non esserne spaventato. Il secondo tipo di esposizione riguarda le attività temute: come il piegarsi, correre, nuotare… incoraggiamo il paziente a riprendere queste attività dopo essersi convinto che il dolore cronico da lui provato è solo una “memoria del dolore” rimasta nel cervello, e non è più associato a un reale danno fisico. Per desensibilizzarsi il paziente deve recitare a se stesso dei mantra come “Sono al sicuro, sono al sicuro” mentre compie queste attività”.

Però nei casi in cui il dolore cronico deriva da un danno permanente a un nervo la vostra terapia psicologica non funziona, giusto?

“Esattamente. Il nostro trattamento è efficace solo quando il dolore non è causato da un danno effettivo ai nervi oppure da un problema di autoimmunità. Per dirla in altre parole, la nostra terapia funziona solo quando nel corpo non c’è nulla che stia causando il dolore: e questa è la maggioranza dei casi di dolore cronico”.

Gli antidolorifici oppioidi sono un problema perché creano dipendenza. La vostra terapia potrebbe, almeno per una parte dei pazienti con dolore cronico, essere una soluzione?

“Una delle ragioni principali per cui le persone non si affrancano dagli oppioidi che assumono come antidolorifico, è che temono che se interromperanno l’assunzione del farmaco, il dolore tornerà. Quindi se il paziente impara a vincere questa paura del dolore, dovrebbe essere più facile liberarsi dagli oppioidi”.

 

Fonte: La Repubblica

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