Non abbiamo riaperto il Paese perché i dati dell’epidemia sono tornati sotto controllo, ma perché rischiavano di finire fuori controllo quelli dell’economia. Le vaccinazioni, ancora lontane dal garantire l’immunità di gregge, iniziano ad agire diminuendo il numero dei decessi: ma non possono ancora arginare la circolazione del virus su larga scala. E, soprattutto, la Covid-19 non è un’epidemia per vecchi.
Consapevoli di questa situazione, per non tornare a nuove restrizioni dobbiamo fare ogni sforzo possibile: a partire da un costante e corretto uso delle mascherine, un’arma che funziona benissimo contro ogni possibile variante e che sarebbe quindi sciocco non utilizzare o utilizzare male, per esempio lasciando scoperto il naso. Parte anatomica dove il Sars-CoV-2 si annida comodamente, e sulla quale vengono infatti eseguiti i test tampone.
È triste doverlo scrivere ancora oggi, dopo oltre un anno dall’inizio dell’emergenza, ma vale la pena ripeterlo. Vedremo di seguito, a partire dall’analisi dei dati più recenti a nostra disposizione, i punti chiave che dobbiamo considerare per affrontare le prossime settimane. Decisive non solo per la prosecuzione della campagna vaccinale, ma anche e soprattutto per imprimere all’epidemia una spinta nella direzione voluta: quella di una progressiva e costante riduzione del contagio.
Come sempre, per facilitare la comprensione di temi complessi, rinunceremo a un po’ di rigore scientifico privilegiando la semplicità (e semplificazione) nell’esposizione.
La situazione attuale dell’epidemia
I numeri sono in discesa, ma con estrema lentezza: la fase epidemica che sta interessando il nostro Paese può essere riassunta con queste poche parole. L’ultima settimana epidemiologica completa (24-30 aprile) si è chiusa con un calo del 7,3% dei nuovi casi, a quota 86.974 contro i 93.839 del periodo precedente. I dati della settimana in corso verranno inevitabilmente condizionati al ribasso dalla festività del primo maggio: relativamente a quella data (che cadeva di sabato e veniva quindi riflessa nella comunicazione della domenica) i test tampone elaborati sono stati 156.872, contro un range di 230-250.000 delle tre domeniche precedenti. Soprattutto a questo fattore si devono attribuire i soli 9.148 nuovi casi individuati in quella data, e non a un reale calo dei positivi sul territorio.
L’intera settimana epidemiologica risentirà dunque del peso di due giorni festivi, e potrebbe in parte nascondere i primi effetti legati alle riaperture del 26 aprile scorso. Per averne piena consapevolezza dovremo pertanto attendere i dati della prossima settimana epidemiologica (8-14 maggio) con la speranza di non osservare un rimbalzo del contagio troppo consistente.
La tendenza alla stabilizzazione dell’epidemia si nota in particolare in alcune delle principali Regioni: in Lombardia, con 13.843 nuovi casi tra il 24 e il 30 aprile contro 13.946 del periodo precedente (-3,3%); in Emilia Romagna, dove si sono registrati 6.471 positivi contro 6.671 (-2,9%) e in Campania, dove la situazione di stallo è ancora più evidente (-1,9% con 12.530 nuovi casi contro 12.779 della settimana 17-23 aprile).
Questo andamento quasi piatto, con un declino lentissimo, viene riflesso nelle stesse Regioni anche dai valori di Rt istantaneo, calcolati come sempre con il metodo rapido Kohlberg-Neyman: se consideriamo il periodo più recente possibile (quello 26 aprile – 2 maggio) troviamo un range compreso tra 0,94 e 1,01 per la Lombardia; tra 0,94 e 0,99 per l’Emilia Romagna; tra 0,95 e 0,99 per la Campania. Dati che testimoniano una situazione in cui di fatto un singolo soggetto positivo ne contagia un altro (in questo caso il valore sarebbe esattamente 1,0) sostenendo i numeri del contagio sui livelli finora raggiunti. Una condizione evidentemente precaria, che consiglia una rinnovata cautela soprattutto in un periodo di allentamenti come quello che stiamo attraversando.
L’epidemia non è sotto controllo
Anche su questo punto dobbiamo essere chiari. Perché un’epidemia si possa definire sotto controllo deve essere rispettata una condizione di base, e ne semplifichiamo al massimo la definizione per non rischiare incomprensioni: il virus deve essere costretto a fare quello che vogliamo noi. Quindi ad arretrare sempre più, senza alcuna possibilità di riprendere una fase di espansione incontrollata. In Italia sappiamo con precisione a quale livello corrisponda questa situazione: ai 50 nuovi casi alla settimana ogni 100.000 abitanti che più volte l’Istituto superiore di Sanità ha richiamato negli ultimi mesi. Un valore che, su base giornaliera, corrisponde alla media di 4.311 positivi che indichiamo puntualmente nel commento quotidiano.
Con 12.424 nuovi casi di media nella settimana epidemiologica 24-30 aprile restiamo circa 3 volte oltre questa soglia: l’unica che permetterebbe di riprendere le attività di contact tracing, di interrompere le catene di trasmissione del virus, di spegnere sul nascere i nuovi focolai e di avere, per l’appunto, il controllo dell’epidemia. Per ora, come accade da mesi, stiamo inseguendo: o se preferiamo, in altri termini, comanda il virus. Stiamo rispondendo alle sue mosse, otteniamo risultati importanti ma parziali, non riusciamo a imporre al Sars-Cov-2 la direzione desiderata. Non appena allentiamo la presa (le misure di mitigazione) l’altalena del contagio riprende a oscillare verso numeri crescenti. Quindi meglio essere sinceri e indicare chiaramente che quello dei 50 casi per 100.000 abitanti non è un obiettivo “a piacere”: ma l’unico da raggiungere per poter parlare, a ragione, di epidemia sotto controllo.
Non è un’epidemia per vecchi
Uno degli errori più gravi che vengono commessi nel valutare questa epidemia è quello di utilizzare come criterio quasi esclusivo la gravità delle manifestazioni cliniche. Importantissimo, senza dubbio, ma limitativo se considerato nell’ottica di poter valutare correttamente la capacità diffusionale del Sars-CoV-2 e le conseguenze che ne derivano. Utilizzando solo questa particolare lente di ingrandimento, infatti, si arriva a una conclusione fin troppo facile: la Covid-19 è “un’epidemia per vecchi”, concetto che sta purtroppo prendendo piede nell’immaginario collettivo.
Sarebbe più corretto riformulare questa definizione, dicendo che la Covid-19 è un’epidemia che “causa manifestazioni cliniche di gravità crescente con il crescere dell’età dei soggetti colpiti”. Come vedremo non si tratta di una pura precisazione accademica o teorica, ma della necessaria presa di coscienza di una realtà che, se dimenticata, rischia di avere ricadute pratiche molto importanti sul nostro futuro.
Vediamo innanzitutto perché non è un’epidemia per vecchi: se utilizziamo i dati Istat notiamo come nel nostro Paese le persone al di sotto dei 40 anni rappresentino il 39,5% della popolazione totale. Passiamo ai dati ufficiali dell’Iss, e in particolare a quelli contenuti nell’ultimo Bollettino di Sorveglianza integrata Covid-19 reso pubblico lo scorso 30 aprile: dalla lettura dei dati ricaviamo due importanti informazioni:
1) Sui 118.592 decessi ufficialmente considerati nello studio, solo 296 (ovvero lo 0,2% del totale) erano riconducibili a soggetti di età pari o inferiore ai 39 anni: nel dettaglio 10 tra 0 e 9 anni; 14 tra 10 e 19; 59 tra 20 e 29 e infine 213 tra 30 e 39 anni.
2) Se invece prendiamo il numero dei casi considerati nello stesso Report, vediamo come tra i soggetti di età pari o inferiore a 39 anni si siano verificati 1.538.096 casi su 3.966.050: il 38,7% delle infezioni totali, un dato del tutto sovrapponibile al peso di questa fascia di età (come abbiamo visto il 39,5%) sul totale della popolazione residente.
Troviamo quindi conferma alle nostre considerazioni iniziali: la Covid-19 è un’epidemia che colpisce in modo più grave al crescere dell’età dei soggetti infettati, ma che si distribuisce uniformemente tra i diversi soggetti in modo del tutto indipendente dall’età stessa.
Le ricadute di questa situazione possono sembrare di scarso conto da un punto di vista degli effetti sulla popolazione, perché un’epidemia con scarse ricadute cliniche appare come l’ideale per una pacifica convivenza. Purtroppo questo punto di equilibrio si ottiene solo quando si verificano, contemporaneamente, almeno tre condizioni:
1) I numeri sono sotto controllo e permettono di gestire la situazione nel modo desiderato.
2) La pandemia diventa epidemia, ovvero esprime la propria presenza con una distribuzione territoriale circoscritta che permette, al di fuori del territorio colpito, il normale svolgimento delle attività economiche e sociali. Per comodità i due termini vengono spesso usati (anche da noi) come intercambiabili, ma è utile conoscerne la differenza di base dal punto di vista epidemiologico.
3) Il rischio di mutazioni del virus, con la ripresa improvvisa e imprevista di un contagio su scala globale, è ridotto a valori prossimi allo zero.
È fin troppo facile prendere atto che nessuno dei tre punti precedenti viene in questo momento rispettato, con numeri ancora troppo alti (lo abbiamo visto nell’analisi della situazione attuale); con una circolazione virale che riguarda tutto il pianeta Terra, pur con diverse intensità e cicli epidemici; con il rischio di mutazioni, e quindi di generazione di varianti, che è tutt’ora una delle maggiori fonti di preoccupazione.
Dedichiamo qualche riga a quest’ultimo punto per ricordarne gli aspetti principali:
1) Tutti i virus, e il Sars-CoV-2 non fa eccezione, quando si riproducono commettono errori che causano variazioni (le mutazioni) nella sequenza del materiale genetico.
2) Le mutazioni, di conseguenza, avvengono con una frequenza crescente al crescere della diffusione virale: più soggetti da infettare, più replicazioni, più errori.
3) Le mutazioni possono avere effetti nulli o trascurabili, senza dare al virus alcun vantaggio competitivo, oppure senza avvicinarlo al punto di equilibrio ideale con la specie ospite (nel nostro caso l’uomo).
4) Se le mutazioni danno al virus un vantaggio competitivo (maggiore capacità diffusionale, per esempio) diventano varianti che spesso sono destinate a diventare prevalenti rispetto a quelle circolanti in precedenza, magari entrando in competizione tra loro. Si tratta di una situazione che abbiamo già vissuto più volte, con il ceppo di Wuhan sostituito nei Paesi occidentali prima dalla variante DG614, poi da quella del Kent (o inglese).
Stiamo selezionando la popolazione più giovane
La corsa alla copertura vaccinale del maggior numero possibile di persone (per ora fermiamoci ai soli italiani) risponde a due precisi criteri:
1) La messa in protezione della popolazione più a rischio, che non è difficile da individuare in quella più anziana visto che il 99,8% dei decessi ha finora riguardato soggetti dai 40 anni in su (e il 95,5% gli over 60).
2) La necessità di garantire una rapidissima copertura anche alle fasce di età meno esposte al rischio di morte, ma non al rischio di contagio, per evitare che il virus possa circolare su larga scala producendo continui e inevitabili errori di replicazione, e quindi mutazioni, in grado di dar vita a possibili varianti con caratteristiche per noi problematiche.
>Di fatto, con la campagna vaccinale obbligatoriamente concentrata sulle categorie prioritarie (gli anziani, a parte gli operatori sanitari e i soggetti più deboli) stiamo in qualche modo selezionando una popolazione giovane, con un’età mediana molto più bassa rispetto a quella della popolazione generale. All’interno della quale, come abbiamo visto grazie ai dati Istat e Iss, il Sars-Cov-2 si diffonde con efficacia del tutto analoga a quella di altre fasce di età. Forse addirittura superiore, se consideriamo che proprio tra i più giovani si concentra la quota maggiore di soggetti asintomatici: e che, di conseguenza, sono presumibilmente moltissimi i soggetti che non sono stati sottoposti a test tampone.
>Al contrario di quanto avvenuto nella popolazione più vecchia, dove l’alto numero dei soggetti sintomatici ha comportato una parallela maggiore concentrazione di test diagnostici effettuati.
Che cosa ci insegna l’India
Si tratta di un tema che abbiamo affrontato, nei giorni scorsi, anche nel commento quotidiano ai numeri della pandemia. Specificando che da quanto sta accadendo in India non dobbiamo trarre una lezione legata ai valori assoluti del contagio, ma piuttosto alle caratteristiche diffusionali del Sars-CoV-2 (in particolare della variante che in questo momento sta colpendo molte zone di quel Paese). Non i numeri assoluti, dicevamo: perché 3-400.000 casi quotidiani, se rapportati a una popolazione di 1,4 miliardi di abitanti, rappresentano un’incidenza dello 0,021-0,028%. E, così considerati, non sono molto diversi da quelli che in queste settimane stiamo riscontrando nei maggiori Paesi europei: corrispondono infatti a circa 15.000 in Italia, poco più della media giornaliera dell’ultima settimana; oppure a 16.750 in Francia, dove la media dell’ultima settimana è stata più alta (22.029). La vera lezione, che peraltro non fa che confermare i dati diffusionali che abbiamo ricavato per l’Italia da Istat e Iss, è che il Sars-CoV-2 circola con immutata efficienza anche in una popolazione molto giovane: l’età mediana, in India, è di poco superiore a 25 anni contro quasi 47 dell’Italia e 43,7 dei Paesi europei considerati nel loro complesso (fonte Eurostat).
In conclusione
1) Siamo in una fase cruciale della pandemia, e per il momento possiamo concentrarci solo su quanto sta accadendo nel nostro Paese. La campagna vaccinale, che punta a mettere in protezione le fasce di età più a rischio dal punto di vista delle manifestazioni cliniche della malattia e della letalità a queste collegata, per ora lascia scoperte larghe fasce della popolazione: in particolare i più giovani, tra i quali abbiamo visto il virus circola con la stessa efficienza riscontrabile negli anziani.
2) Risulta incomprensibile come, nel pieno della campagna vaccinale più importante della nostra storia, non venga messa in campo anche la campagna di informazione più importante della nostra storia: offrendo chiarezza e spiegazioni sui vaccini, e indicando le corrette modalità di comportamento in un periodo in cui stiamo riprendendo una vita più rilassata, e proprio per questo con maggiori profili di rischio.
3) Le riaperture non devono essere viste come il segnale di un possibile ritorno alla normalità generato da una scomparsa del contagio, ma piuttosto come una scelta inevitabile per sostenere una situazione economica di assoluta emergenza, in particolare per alcune categorie.
4) Il rischio dello sviluppo di varianti più diffusive, oppure resistenti alla risposta immunitaria indotta dal vaccino o dalla malattia contratta per via naturale, è direttamente correlato alla circolazione del virus: più il Sars-CoV-2 si diffonde, più il rischio aumenta.
5) Comportamenti irresponsabili, o allentamenti precoci e non giustificati dai dati, rischiano non solo di generare una nuova fase di espansione dell’epidemia, ma anche di costringere a un nuovo stop proprio le categorie che stanno sperimentando i primi allentamenti. Mettendo in ginocchio il Paese da un punto di vista sanitario ed economico.
Lo abbiamo scritto e ricordato più volte fin dall’inizio dell’emergenza: il virus ha un solo modo per spostarsi, le nostre gambe. Senza un organismo ospite è destinato a morire, perché soffre della precaria condizione di essere un parassita obbligato. Per diffondersi sfrutta i nostri errori, che possono capitare a chiunque: ma soprattutto le nostre negligenze, le violazione consapevoli alle (poche) regole che ci permetterebbero di combatterlo con successo.
Le prossime settimane saranno decisive: già a metà mese avremo le prime indicazioni dopo gli allentamenti con il ritorno alle zone gialle di molte Regioni. Ed entro fine mese sapremo con maggiore precisione se sarà possibile controllare la curva epidemica, o se invece sarà indispensabile tornare a maggiori restrizioni per evitare una nuova fase di crescita sostenuta. Le armi a nostra disposizione si sono moltiplicate: conosciamo il virus, sappiamo come si diffonde, abbiamo finalmente un vaccino. Non usare l’arma più importante, un comportamento corretto e consapevole, rischia purtroppo di vanificare l’effetto di tutte le altre.
Fonte: 24+ de IlSole24Ore