“È strano davvero – scriveva nel 1899 Jerome K. Jerome nel suo Tre uomini in barca (per tacer del cane) – il dominio che i nostri organi digestivi esercitano sul nostro intelletto. Non riusciamo a lavorare, non riusciamo a pensare, se il nostro stomaco non vuole. Esso regola le nostre emozioni e le nostre passioni. Dopo un paio di uova al lardo, ci dice: «Lavora!». Dopo una buona bistecca annaffiata con birra, ci dice: «Dormi!». Dopo una tazza di tè (due cucchiaini per ogni tazza e non lasciate in infusione per più di tre minuti) dice al cervello: «Ora, sorgi e mostra la tua forza. Sii eloquente, profondo e duttile; guarda con occhio limpido e acuto la natura e la vita; spiega le tue candide ali di palpitante pensiero e innalzati sul mondo turbinoso quale spirito divino che sorvoli, attraverso le vie del cielo, tra le stelle scintillanti, sino alle porte dell’eternità!». Noi siamo i più miseri e umili schiavi del nostro stomaco”.
Jerome faceva lo scrittore, non il medico; eppure aveva anticipato di oltre un secolo quello che la comunità scientifica sta indagando e scoprendo solo ai giorni nostri. E cioè l’intima connessione tra cervello e pancia, una comunicazione fatta di segnali biochimici più diretti e profondi di quello che non possiamo immaginare. A testimoniarlo, proprio in questi giorni, i risultati di un curioso esperimento condotto dagli esperti del Laureate Institute for Brain Research (Libr) di Tulsa, in Oklahoma, grazie al quale è stato possibile svelare parte dei dettagli di questo elusivissimo filo diretto tra mente e corpo. Per il quale è stato addirittura scomodato un termine nuovo, il cosiddetto psicobioma. Cerchiamo allora di capire di cosa si tratta.
L’esperimento
Gli scienziati di Tulsa hanno reclutato un gruppo di volontari (tutti adulti e in salute) e hanno fatto loro deglutire una piccola capsula vibrante; successivamente, quando la capsula ha raggiunto l’addome, l’hanno attivata e hanno misurato se e in che modo il cervello rispondesse direttamente a questa stimolazione gastrointestinale. Le stimolazioni, in particolare, erano di due tipi: normale e avanzata; quest’ultima è stata “rilevata” (a livello addominale) più velocemente e accuratamente da parte dei volontari, e a essa è corrisposto un minore tempo di reazione, il che, a detta degli autori, dimostra la fattibilità di questo approccio per lo studio dei fenomeni in questione.
Arriviamo al punto più succoso, e cioè al cervello: con la loro analisi, i ricercatori hanno scoperto l’esistenza di un “potenziale gastrico evocato”, cioè l’attivazione neuronale in determinate aree del cervello in risposta diretta alla stimolazione della capsula. Questa attivazione era proporzionale, per intensità, a quella della stimolazione, ed era significativamente correlata alla percezione della stimolazione da parte dei volontari. “Siamo stati in grado – spiega Sahib Khalsa, psichiatra e neuroscienziato del Libr, nonché primo autore dello studio – di localizzare la maggior parte delle stimolazioni negli specifici segmenti gastroduodenali del tratto digestivo usando una tecnica di imaging a raggi X. E questa è una scoperta cruciale, perché ci fornisce una comprensione più precisa di quale sia l’origine delle interazioni tra intestino e cervello. Ha implicazioni cliniche molto profonde e sostanziali: il metodo della capsula vibrante potrebbe cambiare il nostro approccio ai disturbi delle interazioni tra intestino e cervello, tra cui i disturbi alimentari, la sindrome dell’intestino irritabile o la dispepsia funzionale. Grazie a questo studio sarà possibile mettere a punto uno strumento per la valutazione delle sensazioni intestinali, il che potrebbe portare allo sviluppo di trattamenti più personalizzati ed efficaci”.
Una sinergia importante
D’altronde, la comunità scientifica era già al corrente che intestino e cervello riescono a comunicare anche senza alcuna capsula che li stimoli. È noto da tempo, infatti, che il microbioma, ossia l’insieme dei batteri che vivono nell’intestino (migliaia di specie diverse, per un totale di circa 20 milioni di geni: niente male, se si considera che i geni dell’essere umano sono circa 20mila), è in grado di influenzare pesantemente e direttamente l’attività del cervello (e non solo). Le sostanze secrete dai microbi, per esempio, entrano in circolo nei vasi sanguini e raggiungono direttamente il cervello; sono in grado di stimolare il nervo vago; attivano le cellule microendocrine del rivestimento intestinale, che inviano ormoni in tutto il corpo; influenzano le cellule del sistema immunitario e possono innescare stati di infiammazione, che possono colpire il cervello. Insomma, un meccanismo d’azione che agisce su più fronti e che per la maggior parte è ancora sconosciuto: uno psicobioma, per l’appunto, che potrebbe avere effetti sul nostro comportamento, sul nostro stato di benessere generale e addirittura sul nostro stato di salute. O che, ancora, potrebbe aiutarci a sviluppare farmaci più efficaci per il trattamento di disturbi psichiatrici o neurologici. Ma la strada è ancora molto lunga.
Fonte: Galileo