La fine dell’ufficio; la fine del campus universitario; la morte della città. Sin dall’inizio della pandemia, abbiamo acquisito familiarità con fosche previsioni sul futuro urbano. Secondo la tesi più ricorrente, l’avere imparato a vivere e lavorare in remoto renderebbe obsoleto lo spazio fisico. Tale scenario consentirebbe (almeno a chi se lo può permettere) di riparare tra i borghi della Penisola e di condurre un’esistenza neo-rurale. La mia opinione sul tema è diversa. Dopo innumerevoli lockdown e quarantene – e soprattutto dopo infinite riunioni in videoconferenza – vorrei avanzare un’idea di segno opposto: le nostre città sono destinate a una prossima rinascita. Vediamo perché.
In un importante articolo scientifico del 1973, il sociologo americano Mark Granovetter classificava i nostri rapporti sociali in due tipi: “legami deboli” tra conoscenti casuali e “legami forti” tra familiari o amici, i quali loro volta sono tra loro amici. Sebbene i legami forti siano importanti per il nostro benessere personale, i legami deboli ci espongono a un più ampio ventaglio di persone e di idee, mettendo in discussione i nostri preconcetti e stimolando la nostra creatività.
Una dipendenza da soli legami forti intacca la capacità di comprensione del diverso e crea dinamiche di polarizzazione. Proprio quella polarizzazione che, insieme con un deterioramento del livello di discussione civica, è emersa in rete nel 2020 – pensiamo a quanto successo in America rispetto alle false notizie sui risultati delle elezioni presidenziali, o in Italia per quanto riguarda la disinformazione sui vaccini, sulla provenienza del virus, o sulla gravità del contagio da Covid-19. Su Internet è infatti più facile che opinioni diverse (o i fatti stessi) possano essere ignorati da gruppi sociali che si sono rinchiusi in auto-isolamento.
Al MIT di Boston, dove dirigo un laboratorio di ricerca sulla città, abbiamo analizzato la rete anonimizzata di interazioni via e-mail dell’università per provare a capire in quali modi la brusca chiusura del campus abbia modificato la distribuzione di legami forti e deboli. I risultati sembrano confermare ciò che sospettavamo, e che molti di noi hanno osservato nella propria vita quotidiana: nel mondo virtuale le opportunità di incontrarsi e mantenere legami deboli si riducono drasticamente. Ci ritroviamo così a vivere in spazi confinati e chiusi in sé stessi: le famose “echo chambers”, o casse di risonanza, nelle quali non possiamo far altro che avvitarci sui nostri legami forti.
Esiste un antidoto a questa “malattia digitale”? Fortunatamente sì: è proprio lo spazio fisico delle nostre città, il quale contiene in sé, a differenza del web, la dimensione dell’inevitabilità. Lì non abbiamo alternative rispetto all’incontro e al confronto con gli altri. Non ci è consentito mettere un filtro alla diversità. Non possiamo ritirarci in modo definitivo nel rassicurante comfort dell’assertitività, l’attaccamento a coloro che sono più simili a noi.
Se lo spazio fisico gioca un ruolo così importante, dobbiamo iniziare a immaginarne il ritorno dopo la pandemia. Dobbiamo domandarci proprio come esso possa essere rimodellato e migliorato, per esaltarne le capacità di generare interazione sociale.
Pensiamo ad esempio a quello che succedeva nei nostri uffici prima della pandemia. Alcuni ricercatori hanno parlato di “effetto della macchinetta del caffè” per descrivere il modo in cui la condivisione della pausa lavorativa può incentivare la creatività e il dialogo tra colleghi. Al contempo, sappiamo bene quanto il pendolarismo abbia un impatto negativo, tanto sull’ambiente quanto sulla vita delle persone. Ecco allora che nel prossimo futuro potremmo immaginare un sistema misto: continuare a svolgere parte del lavoro a distanza uno, due o tre giorni a settimana, e nel frattempo progettare uffici più flessibili, capaci di stimolare l’interazione sociale.
NON PIU’ SCRIVANIE INDIVIDUALI O CUBICOLI. AL LORO POSTO, SPAZI DI LAVORO ASSEGNATI DINAMICAMENTE (HOT DESKING). E POI AREE NON COMPARTIMENTATE E DEDICATE AD ATTIVITA’ COMUNI – IL CAFFE’, LA LETTURA O L’ESERCIZIO FISICO (L’ULTIMA MODA DEI MIEI COLLEGHI DEL MIT E’ COLLEGARSI VIA ZOOM DAL TAPIS ROULANT). Insomma, una nuova coreografia della vita d’ufficio potrebbe permetterci di promuovere legami deboli su una base temporale più ridotta. È quello che ad esempio abbiamo cercato di fare di recente con il nostro studio di architettura, CRA – Carlo Ratti Associati, con il progetto del nuovo Open Innovation Center del Gruppo Sella a Torino.
Se usciamo dal posto di lavoro e imbocchiamo le strade delle nostre città, c’è un’altra dimensione fondamentale da ripensare: quella del piano terra degli edifici. Ristoranti, caffè e negozi al dettaglio sono stati messi a dura prova dall’e-commerce prima e dall’impatto della pandemia poi. Negli Stati Uniti molti di loro non riapriranno – fino al 30% secondo alcune stime. Potremmo allora pensare di dedicare parte di questi spazi a una gamma di utenti più ampia mediante nuove funzioni: co-working di prossimità, fab-lab, centri di imprenditorialità giovanile o di solidarietà.
Infine, volgiamo lo sguardo verso lo spazio pubblico vero e proprio. Le recenti proteste pro-democrazia che si sono svolte in tutto il mondo – da Hong Kong a Mosca a Minneapolis – ci ricordano che esso è necessario sconfiggere la segregazione, l’autoritarismo e l’ineguaglianza in tutte le sue forme. Dobbiamo garantire quello che il sociologo francese Henri Lefebvre chiamò il “diritto alla città”: vivere tutti insieme lo spazio urbano, anche quando esso presenta elementi di conflittualità, al fine di mantenere in salute le nostre società
SI TRATTA QUINDI DI INVESTIRE SUGLI SPAZI PUBBLICI O SEMI PUBBLICI – STRADE E PARCHI, CENTRI CIVICI E GALLERIE COPERTE, SIA ESISTENTI SIA DI NUOVA CREAZIONE. LA PANDEMIA CI HA INSEGNATO CHE SI PUO’ AGIRE IN FRETTA: PER ESEMPIO PEDONALIZZARE UNA NUOVA PIAZZA IN POCHE SETTIMANE E POI LASCIAR EVOLVERE IL PROGETTO NEL TEMPO SULLA BASE DELLE RISPOSTE DEI CITTADINI. UN PROCESSO BASATO SU PROVE ED ERRORI, CHE PUO’ ACCELERARE IL MODO IN CUI PIANIFICHIAMO E TRASFORMIAMO LE NOSTRE CITTA’.
Per tutti questi motivi, credo che il mondo post-Covid-19 continuerà a essere un mondo urbano, anche se da riprogettare. Cent’anni fa, dopo la devastazione della Prima guerra mondiale e la pandemia spagnola, una crescente domanda di socialità diede vita a un decennio di ricchezza urbana, sociale e culturale – i cosiddetti “ruggenti Anni Venti”. Qualcosa di simile potrebbe verificarsi nel terzo decennio del XXI secolo: non la morte delle interazioni fisiche, ma una nuova urbanità. Le nostre città possano aiutarci a riavvicinarci gli uni agli altri – e a renderci migliori.
Fonte: La Stampa