L’ingestione di plastica è stata in passato collegata a conseguenze croniche di vario tipo sulla salute degli animali attraverso studi di laboratorio. Ora però, nell’apparato digerente di alcuni uccelli selvatici, gli scienziati hanno individuato lesioni direttamente collegabili alla plastica attraverso cui possono farsi strada i patogeni.
Come biologo della conservazione che studia l’ingestione di plastica da parte della fauna marina, posso contare sulla stessa domanda ogni volta che presento una ricerca: “Che effetto ha la plastica sugli animali che la mangiano?”
È una delle domande più importanti in questo campo e il verdetto non è ancora stato emesso. Tuttavia, un recente studio dell’Arift Lab, un gruppo di scienziati australiani e internazionali che studiano l’inquinamento da plastica, si aggiunge a un crescente numero di prove che dimostrano che l’ingestione di detriti di plastica ha effetti cronici percepibili sugli animali che li consumano. Questo lavoro rappresenta un passo fondamentale: passare dalla consapevolezza che la plastica è ovunque alla diagnosi dei suoi effetti una volta ingerita.
Dagli effetti individuali a quelli a livello di specie
È opinione diffusa che il mondo stia affrontando una crisi per inquinamento da plastica. Questo diluvio di detriti a lunga vita ha generato foto raccapriccianti di uccelli marini e balene morti con lo stomaco pieno di plastica.
Ma mentre il consumo di plastica ha probabilmente ucciso questi singoli animali, non è ancora stato dimostrato che le morti direttamente attribuibili all’ingestione di plastica causino effetti a livello di popolazione sulle specie, ovvero diminuzioni del numero delle popolazioni nel tempo, che siano collegate a effetti cronici sulla salute dovuti a uno specifico inquinante.
Un esempio ben noto di inquinante con effetti drammatici sulla popolazione è l’insetticida DDT, ampiamente usato in Nord America negli anni cinquanta e sessanta. Il DDT si accumulava nell’ambiente, anche nei pesci consumati da aquile, falchi pescatori (Pandion haliaetus) e altri uccelli. Il DDT causava la deposizione di uova con gusci così sottili che spesso si rompevano nel nido.
Lo studio che propone il termine “plasticosi” per quella che pare a tutti gli effetti una nuova patologia veterinaria, si è concentrato sulle berte (Ardenna carneipes). Questi uccelli fanno parte dei procellariformi, animali molto abili a trovare i detriti di plastica che, ricorperti di alghe, possono sembrare un buon pasto
L’esposizione al DDT ha portato a un drastico calo delle popolazioni di aquile di mare testabianca (dette anche aquile calve), falchi pescatori e altri rapaci in tutti gli Stati Uniti, che hanno iniziato a riprendersi gradualmente dopo che, nel 1972, l’Agenzia per la protezione ambientale (EPA, Environmental Protection Agency) ha vietato la maggior parte degli usi del DDT.
L’ingestione di plastica può danneggiare la fauna selvatica senza causare la morte per inedia o blocco intestinale. Ma gli effetti più sottili e subletali, come quelli descritti sopra per il DDT, potrebbero avere una portata molto più ampia.
Numerosi studi di laboratorio, alcuni risalenti a un decennio fa, hanno dimostrato gli effetti cronici dell’ingestione di plastica su invertebrati, mammiferi, uccelli e pesci. Tra questi: cambiamenti nel comportamento, perdita di peso e condizione corporea, riduzione del tasso di alimentazione, diminuzione della capacità di produrre prole, squilibri chimici nell’organismo e cambiamenti nell’espressione genica, solo per citarne alcuni.
Tuttavia, gli studi di laboratorio sono spesso una scarsa rappresentazione della realtà. La documentazione di effetti subletali, spesso invisibili, negli animali selvatici che siano definitivamente collegati alla plastica stessa è rimasta elusiva. Per esempio, nel 2022 io e i miei colleghi abbiamo pubblicato uno studio che ha rilevato che quando si nutrono, alcune balene ingeriscono milioni di microplastiche al giorno, ma non abbiamo ancora scoperto alcun effetto sulla salute di questi animali.
Cicatrici nel tratto digestivo degli uccelli marini
La ricerca dell’Adrift Lab si concentra sull’elegante berta piedicarnicini (Ardenna carneipes), un uccello marino di medie dimensioni con piume scure e un potente becco a uncino. Il laboratorio ha studiato le berte che nidificano a Lord Howe Island, un minuscolo fazzoletto di terra lungo sei miglia e largo un miglio (16 chilometri quadrati) nel Mare di Tasman, a est dell’Australia.
Questa regione ha solo livelli moderati di inquinamento da plastica galleggiante. Ma le berte, così come i petrelli e gli albatri, fanno parte di una classe nota come procellariformi, con narici tubolari e un eccellente senso dell’olfatto. Come ho scoperto nel corso delle mie ricerche, i procellariformi sono molto abili nel cercare i detriti di plastica, che possono sembrare un buon posto per trovare cibo grazie alle alghe che li ricoprono nell’acqua. In effetti, la berta piedicarnicini ha uno dei più alti tassi di ingestione di plastica di qualsiasi altra specie finora studiata.
L’ecologa marina Jennifer Lavers, responsabile dell’Adrift Lab, studia da oltre un decennio il consumo di detriti di plastica in questa popolazione selvatica di berte. Nel 2014 il laboratorio ha iniziato a pubblicare ricerche che collegano la plastica ingerita a effetti subletali sulla salute.
Nel 2019, Lavers ha coordinato uno studio che ha descritto le correlazioni tra la plastica ingerita e vari aspetti della chimica del sangue. Gli uccelli che avevano ingerito più plastica presentavano livelli di calcio nel sangue più bassi, oltre a livelli più elevati di colesterolo e acido urico.
Nel gennaio del 2023, il gruppo di Lavers ha pubblicato un documento che ha rilevato danni multiorgano in queste berte a causa dell’ingestione di frammenti di microplastica, che misurano meno di cinque millimetri, e di particelle di macroplastica più grandi. Questi risultati includono la prima descrizione della sovrapproduzione di tessuto cicatriziale nel proventricolo degli uccelli, la parte dello stomaco dove avviene la digestione chimica.
Questo processo, noto come fibrosi, è un segno che l’organismo sta rispondendo a una lesione o a un danno. Nell’essere umano, la fibrosi si riscontra nei polmoni dei fumatori di lunga data e delle persone con esposizione ripetuta e prolungata all’amianto. Si riscontra anche nel fegato dei forti bevitori. Un accumulo eccessivo di tessuto cicatriziale porta a una riduzione della funzione degli organi e può consentire l’ingresso di malattie nell’organismo attraverso gli organi danneggiati.
Una nuova era di malattie plastiche
L’ultimo lavoro dell’Adrift Lab si spinge ancora oltre. I ricercatori hanno trovato una correlazione positiva tra la quantità di plastica nel proventricolo e il grado di cicatrizzazione. Hanno concluso che la plastica ingerita era la causa delle cicatrici, un fenomeno che chiamano “plasticosi”.
Molte specie di uccelli consumano volutamente piccole pietre e granaglie, che si raccolgono nel ventriglio – la seconda parte dello stomaco – e aiutano gli uccelli a digerire il cibo polverizzandolo. Tuttavia, la graniglia, talvolta chiamata pomice, non è associata alla fibrosi.
Gli scienziati hanno osservato associazioni tra l’ingestione di plastica e malattie nei pesci. La plasticosi può aiutare a spiegare come gli agenti patogeni riescano a penetrare nell’organismo attraverso un tratto digestivo lacerato.
Gli uccelli marini sono stati le prime sentinelle dei possibili rischi per la vita marina derivanti dalla plastica: uno studio del 1969 descriveva l’esame di giovani albatri di Laysan (Phoebastria immutabilis) morti alle Hawaii e il ritrovamento di plastica nel loro stomaco. Quindi forse è appropriato che anche la prima malattia attribuita specificamente ai detriti plastici marini sia stata descritta in un uccello marino. A mio avviso, la plasticosi potrebbe essere il segno che sta arrivando una nuova era di malattie causate dell’uso eccessivo di plastica e di altri contaminanti a lunga durata da parte dell’essere umano, e dalla loro dispersione nell’ambiente.
Nel 2022, i paesi membri delle Nazioni Unite hanno votato per negoziare un trattato globale per porre fine all’inquinamento da plastica, con una data di completamento prevista per il 2024. Si tratterebbe del primo accordo vincolante per affrontare l’inquinamento da plastica in modo concertato e coordinato. L’identificazione della plasticosi nelle berte dimostra che non c’è tempo da perdere.
Fonte: Le Scienze