Grandi progetti internazionali stanno mappando le cellule cerebrali su base non solo anatomica, ma anche rispetto alla loro connettività e tempi di attivazione, avvalendosi anche della genetica. Ne sta uscendo un panorama che promette di incidere profondamente sulle neuroscienze e sulle terapie delle malattie neuropsichiatriche.
Immaginate di guardare la Terra dallo spazio e di essere in grado di sentire che cosa si stanno dicendo le singole persone. Ecco il livello di difficoltà necessario per comprendere come funziona il cervello.
Partendo dalla superficie rugosa di quest’organo, se ingrandiamo l’immagine un milione di volte appare un caleidoscopio di cellule di forme e dimensioni diverse, che si diramano per raggiungersi l’una con l’altra. Ingrandiamo ancora 100.000 volte ed ecco svelati gli aspetti del funzionamento interno: le minuscole strutture di ciascuna cellula, i punti di contatto che le collegano e le connessioni tra aree cerebrali distanti fra loro.
Gli scienziati hanno costruito simili mappe del cervello di un verme e di un moscerino, così come di parti microscopiche dei cervelli di topo e dell’essere umano. Ma queste cartografie sono soltanto l’inizio: per comprendere davvero come funziona il cervello, i neuroscienziati devono anche sapere come ciascuno dei circa 1000 tipi di cellule che si ritiene esistano nel cervello comunica con gli altri, nei loro rispettivi dialetti elettrici. Con questo tipo di mappa completa, dai contorni definiti, i ricercatori potrebbero davvero iniziare a spiegare i circuiti che regolano come pensiamo e ci comportiamo.
L’incredibile arborizzazione dei dendriti delle cellule di Purkinje, uno dei tipi di neuroni più grandi (© Science Photo Library/AGF)
Proprio ora stanno comparendo mappe del genere; tra queste, una serie di articoli da poco pubblicati che catalogano i tipi di cellule cerebrali. Stanno arrivando i risultati di iniziative governative volte a comprendere e ad arginare il fardello sempre più ingombrante di malattie cerebrali che colpiscono i cittadini in età avanzata. Questi progetti, lanciati nell’ultimo decennio, intendono stilare una cartografia sistematica delle connessioni del cervello e catalogarne i tipi cellulari e le loro proprietà fisiologiche.
Un compito oneroso. “Ma la conoscenza di tutti i tipi di cellule cerebrali, dei loro collegamenti e delle loro interazioni aprirà le porte a un insieme di terapie completamente nuove che oggi non possiamo neppure immaginare”, commenta Josh Gordon, direttore dello US National Institute of Mental Health (NIMH) a Bethesda, nel Maryland.
I progetti più ampi sono iniziati nel 2013, quando il governo statunitense e la Commissione europea si sono impegnati in sforzi degni della corsa alla Luna per offrire ai ricercatori i mezzi che li avrebbero aiutati a decifrare il codice del cervello dei mammiferi. Entrambe le istituzioni hanno impiegato ampie risorse in programmi sistematici di larga scala, con obiettivi diversi. Con l’iniziativa BRAIN (Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies), lo sforzo statunitense – per un costo stimato pari a 6,6 miliardi di dollari fino al 2027 – si è concentrato sullo sviluppo e l’applicazione di nuove tecnologie di mappatura. La Commissione europea e le sue organizzazioni partner hanno speso 607 milioni di euro (703 milioni di dollari) nello Human Brain Project (HBP), inteso principalmente a creare simulazioni dei circuiti cerebrali e usare questi modelli come piattaforma per esperimenti.
Ispirato da questi sforzi, inizialmente concentrati sui topi, nel 2014 il Giappone ha lanciato il proprio progetto Brain/MINDS (Brain Mapping by Integrated Neurotechnologies for Disease Studies), gran parte del quale comprende la mappatura di network neurali nel cervello di una scimmia del nuovo mondo della famiglia Callitrichidae. Da allora, altre nazioni come Canada, Australia, Corea del Sud e Cina hanno lanciato o si sono impegnate a lanciare generosi programmi di neuroscienze con obiettivi più diffusi.
Questi lavori stanno già generando set di dati colossali e variegati; e tutti saranno ad accesso libero. Nel dicembre 2020, per esempio, lo HBP ha lanciato la propria piattaforma EBRAINS per offrire accesso ai dati su varie scale, gli strumenti digitali per analizzarli e le risorse per condurre esperimenti.
Uno degli sforzi più ampi e meglio finanziati, sostenuto dall’iniziativa BRAIN, è un gigantesco catalogo di tipi cellulari creato dal BRAIN Initiative Cell Census Network (BICCN), un consorzio di 26 gruppi presenti in istituti di ricerca statunitensi. Il catalogo descrive quanti tipi diversi di cellule esistono, in quali proporzioni e come sono disposti spazialmente.
Alcuni neuroni collegano parti diverse della corteccia, e alti tipi mettono in comunicazione la corteccia con il tronco encefalico (Da BICCN/Nature)
“La comprensione del cervello richiede la conoscenza dei suoi elementi di base e di come sono organizzati”, spiega il membro del consorzio Josh Huang, neurobiologo alla Duke University a Durham, in North Carolina. “È il nostro punto di partenza per capire come è fatto e come funziona un circuito neurale e, come obiettivo finale, per comprendere i comportamenti complessi generati da questi circuiti.”
Il 7 ottobre il BICCN ha pubblicato su “Nature” una tranche di 17 articoli, e molti altri articoli sono già stati pubblicati nelle varie riviste scientifiche di “Nature Portfolio”. Il consorzio ha mappato i tipi di cellule in circa l’uno per cento del cervello di topo, fornendo anche alcuni dati preliminari sui cervelli dei primati, essere umano compreso. Prevede di completare l’intero cervello del topo entro il 2023. Le mappe già indicano l’esistenza di piccole differenze tra le specie che potrebbero aiutare a spiegare la nostra suscettibilità ad alcune malattie specifiche degli umani, come il morbo di Alzheimer.
I neuroscienziati sono particolarmente eccitati dal fatto che il BICCN sta approntando strumenti che hanno per obiettivo tipi cellulari e circuiti specifici, rilevanti per la malattia, che aiuteranno a testare le ipotesi sulle funzioni cerebrali e a sviluppare cure.
Il catalogo delle cellule è un termine di paragone di cui c’è un gran bisogno, osserva il neuroscienziato Christof Koch, presidente dell’Allen Institute for Brain Science a Seattle, nello Stato di Washington. “Come in chimica, niente ha senso senza la tavola periodica, qui niente avrà senso nella comprensione del cervello se prima non capiamo perché esistono e come funzionano i diversi tipi di cellule.”
A caccia di tipi
Oltre un secolo fa, il neuroscienziato spagnolo Santiago Ramón y Cajal fu il primo a mostrare quanti tipi diversi di cellule convivono nel cervello dei mammiferi. Colorò i neuroni così da renderli visibili, dopodiché realizzò disegni precisi e bellissimi delle loro forme. Tra le poche decine di tipi che scoprì, alcuni avevano estensioni (assoni) che si protendevano dagli informi corpi cellulari come zampe di ragno, su lunghe distanze. Altri avevano assoni brevi; altri ancora somigliavano di più a stelle. Ne dedusse che, essendo gli assoni di ogni cellula molto vicini ai corpi cellulari di altre, stavano probabilmente trasmettendo informazioni. Per le sue scoperte, nel 1906 condivise [con l’italiano Camillo Golgi, NdR.] il premio Nobel per la fisiologia o la medicina.
Da allora, la maggior parte degli studi sui tipi cellulari si sono concentrati sulla corteccia cerebrale, che controlla molti dei comportamenti sofisticati degli animali. Negli ultimi trent’anni, i neuroscienziati hanno capito che esistono nella corteccia tre classi principali di cellule, la cui linea evolutiva può essere seguita a ritroso fino a stadi diversi dello sviluppo. Esse includono due classi di neuroni: eccitatori e inibitori. Entrambi trasmettono impulsi elettrici, ma il primo incita l’attività nei neuroni partner, mentre il secondo la sopprime. La terza classe comprende un numero enorme di cellule non neuronali che sostengono e proteggono i neuroni.
Negli anni, i neuroscienziati hanno usato ogni possibile nuova tecnologia che passava loro per le mani per rifinire la definizione di ciò che, in queste classi, costituisce un tipo di cellula distinto. Hanno capito che cellule che superficialmente sembrano le stesse possono appartenere a tipi diversi, a seconda delle loro connessioni con altre cellule o regioni cerebrali, o delle loro proprietà elettriche.
I ricercatori, allo stesso tempo, stavano raccogliendo dati sul modo in cui i neuroni si connettono tra loro nei network, e quali sono le proprietà di questi network. Per inciso, al suo lancio, lo Human Brain Project era incentrato sulla generazione di algoritmi e di una potenza di calcolo che aiutassero i ricercatori a simulare come questi network potrebbero funzionare insieme.
Dagli anni novanta, gli scienziati hanno iniziato a studiare l’attività dei geni in diversi tipi cellulari e a cercare di capire come la loro espressione ne riflettesse le proprietà.
Nel 2006, l’Allen Institute ha creato un atlante dell’espressione genica che mostra dove, nel cervello di topo, è espresso ciascuno dei suoi circa 21.000 geni. Ci sono voluti tre anni e circa 50 persone per costruire, un gene alla volta, l’Allen Brain Atlas, il cui valore è stato riconosciuto all’istante dalla comunità scientifica. È regolarmente aggiornato e continua a essere molto usato come riferimento, aiutando gli scienziati a localizzare dove è espresso il gene a cui sono interessati o a studiare il ruolo di un particolare gene in una malattia.
Ma la comunità scientifica voleva di più. “Volevamo essere in grado di vedere ogni gene che è espresso in ogni cellula allo stesso tempo”, spiega Hongkui Zeng, direttrice dell’Allen Institute for Brain Science. I diversi schemi (pattern) di espressione genica delle singole cellule permetterebbero ai ricercatori di associare a ciascuna cellula il suo tipo, un compito ambizioso, dal momento che il cervello del topo contiene oltre 100 milioni di cellule, due terzi delle quali sono neuroni. Il cervello umano, per inciso, è più grande di tre ordini di grandezza, con più di 170 miliardi di cellule, metà delle quali neuroni.
Una tecnologia rivoluzionaria emersa a metà degli anni duemila promise di aiutare a raggiungere questo obiettivo. Gli scienziati avevano sviluppato un modo per sequenziare l’RNA nelle singole cellule, una tecnica che negli ultimi dieci anni ha trasformato tutte le aree della biologia: il trascrittoma di una cellula – l’RNA che rappresenta una trascrizione di tutti i suoi geni che codificano per proteine – è un indicatore di quali proteine una cellula sta producendo in un dato momento.
Nel 2017, l’iniziativa BRAIN decise di finanziare un network di laboratori, tra cui aveva un ruolo importante l’Allen Institute, per usare questo metodo e altre tecnologie ancora più recenti per mappare e caratterizzare i tipi cellulari in tutto il cervello. Due anni più tardi, gli scienziati del BICCN erano pronti a iniziare.
Smania di sequenziare
Per il progetto pilota, i ricercatori avevano scelto un obiettivo modesto: un angolino del cervello di topo noto come corteccia motoria, che processa l’informazione relativa alla pianificazione e all’esecuzione dei movimenti. La corteccia motoria ha corrispettivi non ambigui in tutti i mammiferi, rendendo possibile confrontare risultati ottenuti sui topi, sull’essere umano e su altre specie. Misurarono l’RNA contenuto in oltre 1,1 milioni di singole cellule e analizzarono come si raggruppava. Lo sforzo ha richiesto a una decina di scienziati del BICCN tre mesi appena.
Hanno così trovato 56 raggruppamenti distinti, ognuno dei quali si pensa che rappresenti un diverso tipo cellulare. Una domanda importante, secondo Ed Lein dell’Allen Institute, è se la classificazione genetica di una cellula corrisponda a tutte le sue altre proprietà, compreso il modo in cui scarica, la sua forma e dove proietta.
Finora, conclude Lein, sembra di sì. Lo scienziato ha portato avanti un progetto parallelo del BICCN che ha analizzato il tessuto cerebrale appena rimosso da un paziente durante un intervento chirurgico per un tumore al cervello, usando un metodo particolarmente efficace chiamato patch-seq che permette, da un’unica cellula, tre tipi diversi di misura. La tecnica fa uso di una speciale pipetta di vetro che, attaccata alla membrana della cellula, ne registra l’attività elettrica, la colora così da poterne visualizzare l’anatomia e infine ne preleva i contenuti per l’analisi trascrittomica.
I ricercatori sequenziano l’RNA da singole cellule nei sei strati (L1-L6) della corteccia per tracciare quali geni sono attivi. L’RNA delle cellule – il loro trascrittoma – è usato per raggrupparle in diversi gruppi, qui caratterizzati da colori diversi (Cortesia Meng Zhang, Xiaowei Zhuang/Harvard University e HHMI)
Il gruppo ha mostrato che cellule con un pattern trascrittomico comune condividono anche gli stessi pattern distintivi per quanto riguarda la forma e il modo in cui scaricano. Secondo Lein, “questo indica che la trascrittomica può servire come stele di Rosetta per interpretare la diversità delle cellule e predirne le proprietà”.
Scienziati che non fanno parte della collaborazione si sono già lasciati ispirare dai risultati, in particolare dalla scoperta che neuroni di una singola classe possono essere così diversi gli uni dagli altri.
Due anni fa, la neuroscienziata Anne Churchland dell’Università della California a Los Angeles ha iniziato a progettare una serie di esperimenti sui topi per capire se questa diversità avesse un ruolo nei neuroni eccitatori. I suoi primi risultati, non ancora sottoposti a peer-review, suggeriscono che potrebbe essere così: mentre i topi svolgono un’attività di ascolto, neuroni eccitatori diversi scaricano in momenti diversi. “Siamo a uno stadio davvero entusiasmante”, ha commentato.
Cervelli più grandi
Nella prossima fase del censimento cellulare, i gruppi si concentreranno di più su cervelli più grandi. In parte hanno già iniziato. Il sequenziamento di RNA su cervelli post-mortem di scimmie del Nuovo Mondo (famiglia Callitrichidae) e di esseri umani ha rivelato una coerenza notevole tra i tipi cellulari in specie diverse. Che cos’è dunque responsabile della marcata superiorità del potere cognitivo dell’essere umano?
“Il principale messaggio da trarre da questi studi è che il progetto generale dei tipi di cellule è conservato tra specie”, precisa Lein. “Eppure, ci sono nelle specie prove di specializzazioni decisamente significative, anche se sono soltanto variazioni sul tema.” Gli studi di trascrittomica del BICCN indicano una maggior diversità di tipi cellulari nel cervello umano rispetto a quello del topo, in particolare in neuroni che si sono evoluti più di recente. Uno di questi corrisponde a un tipo di neurone noto per essere selettivamente deteriorato nella malattia di Alzheimer.
Il rapporto tra diversi tipi cellulari, inoltre, varia tra essere umano, scimmie Callitrichidae e topi. Secondo Lein, queste proprietà potrebbero aiutarci a comprendere meglio malattie specifiche degli esseri umani.
Lein sta conducendo analisi trascrittomiche su 100 cervelli post-mortem di individui che, al momento della morte, erano malati di Alzheimer. Un confronto tra queste mappe specifiche di una data malattia e le mappe di riferimento del BICCN rivelerà in modo più sistematico quali tra le nostre cellule sono le più vulnerabili, conclude lo scienziato.
Neuroni negli strati 2 e 3 della neocorteccia umana; sono evidenziate ramificazioni note come dendriti. (© Albert Gidon & Matthew Larkum/Humboldt-Universität zu Berlin; Felix Bolduan & Imre Vida/ Charité – Universitätsmedizin Berlin)
Un’altra differenza evidenziata dagli studi del BICCN è la grande variazione nell’equilibrio tra neuroni eccitatori e inibitori nella corteccia dei topi, delle scimmie Callitrichidae e degli esseri umani. Il rapporto è pari a 2:1 negli esseri umani, 3:1 nelle scimmie Callitrichidae e 5:1 nei topi. Si tratta di una scoperta sorprendente e piuttosto misteriosa, nota Lein: “Queste differenze cumulative potrebbero portare a cambiamenti profondi nel modo in cui la corteccia umana è organizzata e funziona”.
Ciò che rende speciale il cervello umano potrà essere ricondotto a differenze nella diversità cellulare, nelle proporzioni dei tipi di cellule, nel cablaggio del cervello e probabilmente molto altro, sostiene il neuroscienziato John Ngai dell’Università della California a Berkeley, a capo della US BRAIN Initiative. “Non c’è una risposta semplice a questa domanda millenaria.”
Dalle mappe alla medicina
Uno dei prossimi stadi dell’iniziativa BRAIN, continua Ngai, sarà costruire strumenti che si indirizzino selettivamente su determinati tipi cellulari in circuiti rilevanti per le malattie e che trasportano molecole terapeutiche in grado di regolare quei circuiti.
Il metodo di individuazione che entusiasma di più gli scienziati si basa sulla scoperta (a opera del BICCN) di brevi frammenti di DNA che sono esclusivi di singoli tipi cellulari. Queste brevi sequenze possono servire da marcatori per quei tipi cellulari, permettendo ai ricercatori di creare ceppi di topi in cui possono individuare cellule diverse e manipolarne l’attività e, di conseguenza, l’attività dei circuiti associati. Sia la scienza sia la medicina ne trarranno beneficio. “La capacità di avere nel mirino ogni singola cellula del cervello sarà di grande aiuto nella ricerca fondamentale”, dice Edvard Moser del Kavli Institute for Systems Neuroscience di Trondheim, in Norvegia, che nel 2014 ha condiviso il premio Nobel per la medicina per il suo lavoro sui sistemi di navigazione nel cervello.
Questi strumenti saranno “enormemente importanti” anche per la terapia genica, una cura che sostituisce un gene mancante o mal funzionante, commenta Botond Roska dell’Institute for Molecular and Clinical Ophtalmology di Basilea, in Svizzera. Roska sta testando la prima terapia optogenetica al mondo – in cui proteine fotosensibili sono inserite in neuroni della retina – in persone con un certo tipo di cecità. Commenta che sono trascorsi 19 anni da quando ha deciso di identificare le cellule più appropriate nella retina a quando, lo scorso maggio, ha pubblicato i risultati positivi ottenuti nella cura della prima persona sottoposta a questa terapia. Secondo lui, nel futuro le attività del BICCN, accelereranno le ricerche di scienziati che lavorano su altre aree cerebrali.
Chi si occupa di sviluppare farmaci per malattie psichiatriche e neurologiche ha bisogno di prendere in considerazione il tipo cellulare, ma fino a oggi questo non è stato possibile, spiega Gordon. “Oggi stiamo bombardando di farmaci tutte le cellule insieme senza sapere quali ne saranno influenzate: ecco perché così tante cure, in psichiatria e neurologia, hanno effetti collaterali significativi.”
Visione d’insieme
Conoscere le parti del cervello è una cosa. Sapere come funzionano di concerto un’altra. Alcuni dei progetti collaborativi più ampi, così come numerosi gruppi di ricerca indipendenti in tutto il mondo, stanno definendo l’organizzazione spaziale dei tipi cellulari e le loro connessioni – il cosiddetto connettoma – in molte specie, compresi i topi e gli esseri umani.
Per riuscirci, gli scienziati colorano il cervello e poi lo tagliano in strati ultrasottili, le cui immagini sono poi catturate da un microscopio elettronico. A questo punto, impilano le immagini una sull’altra e usano l’intelligenza artificiale per tracciare il percorso tridimensionale di ciascuna cellula. La risoluzione è così buona da mettere in evidenza le singole sinapsi, le minuscole strutture presenti nella membrana cellulare che plasmano le connessioni con altre cellule.
Gli scienziati del Janelia Research Campus ad Ashburn, in Virginia, si aspettano di completare il connettoma del moscerino della frutta il prossimo anno. La scala dell’impresa da compiere per specie più grandi implica che i prossimi connettomi siano lontani anni, se non decenni. Il BICCN progetta di creare una mappa anatomica tridimensionale dell’intero cervello del topo usando la microscopia elettronica ad alta risoluzione, che offre l’ingrandimento di miliardi di volte necessario per osservare il funzionamento interno delle cellule. Gli scienziati coinvolti nel progetto giapponese Brain/MINDS stanno delineando il connettoma delle scimmie Callitrichidae e una manciata di gruppi non appartenenti ai grandi progetti finanziati con fondi pubblici, tra cui tre gruppi di diversi istituti dell’istituzione di ricerca tedesca Max-Planck-Gesellschaft, sono al lavoro su connettomi di mammiferi più grandi.
Alcune cellule asso-assoniche (in verde), un particolare tipo di neuroni, nella corteccia del topo (Da WANG X. e altri/Cell Reports)
Gli sforzi attuali sono limitati dalla potenza di calcolo richiesta per ricostruire anche il più minuscolo brandello di tessuto cerebrale. Questi piccoli connettomi sono comunque utili, secondo il direttore del Max-Planck-Institut per la ricerca cerebrale a Francoforte, Moritz Helmstaeder, perché “possiamo iniziare a porci domande eccitanti su come i nostri circuiti sono plasmati dalla nostra esperienza individuale o dalla nostra predisposizione evolutiva”.
Barriere cerebrali
La maggior parte dei neuroscienziati pensa che i grandi progetti di mappatura siano il futuro di questo campo, ma alcuni sono più cauti. Il neurofisiologo Tony Movshon della New York University è scettico sul fatto che una conoscenza dettagliata dei tipi cellulari e dei connettomi possa essere di aiuto immediato. “Distinguevamo già alcuni tipi di cellule grazie alla morfologia e ad altri tipi di classificazione prima che chiunque facesse un’analisi trascrittomica, e siamo ancora in alto mare”, commenta. “Nel berve termine sapere che ci sono più tipi geneticamente diversi non sarà molto utile per capire come funziona un circuito.”
Ma, continua lo scienziato, strumenti che permettono di etichettare o manipolare precisi tipi cellulari saranno “formidabili. Avremmo imparato molto di più se avessimo conosciuto meglio le cellule da cui stavamo registrando i dati”.
Movshon era stato scettico anche nei confronti del Progetto genoma umano quando fu lanciato, nel 1990, ma anche in questo caso, secondo lui, i risultati collaterali che ne sono derivati (compresi gli strumenti che hanno reso possibile il lavoro di censimento delle cellule) hanno trasformato il campo.
Gli scienziati vedono molti parallelismi tra il BICCN e il Progetto genoma umano sia in termini di risultati scientifici sia di strumenti per la ricerca. Una volta che la bozza del genoma è stata completata, nel 2001, i ricercatori hanno capito che gli esseri umani non hanno un numero di geni significativamente più alto di quello dei topi. Hanno scoperto che, per capire come funziona il tutto, avrebbero avuto bisogno di ben più del semplice inventario delle singole parti: ci sarebbero voluti altri livelli di informazioni su come e quando i geni sono espressi, come si influenzano reciprocamente e come interagiscono con l’ambiente.
Per il BICCN la sfida è analoga, ma la sua portata finirà per fare impallidire quella del Progetto genoma umano, commenta Huang. “Il genoma è soltanto un tipo di informazioni, una sequenza di nucleotidi; l’atlante dei tipi cellulari contiene informazioni di molti tipi diversi.”
Via via che il flusso di dati del censimento cellulare continua, i ricercatori sono al lavoro per scoprire modi di combinarli in un “sistema di coordinate comune”: una sorta di cervello di riferimento per singole specie. In questo modo, da un’unica zona possono essere ricavati tipi diversi di informazioni.
La piattaforma EBRAINS dello Human Brain Project (HBP) sta creando un proprio sistema di riferimento comune. È una sfida computazionale immensa, ma essenziale, per collegare tipi diversi di informazione biologica in uno stesso spazio, così che gli studi sulle – e un giorno tra le – specie possano essere confrontati; questa è l’opinione di Wim Vanduffel, neurofisiologo all’Università cattolica di Lovanio, in Belgio, che partecipa del progetto HBP. Con le sue parole, “i sistemi di riferimento comuni servono come punti di ancoraggio”.
HBP e BICCN stanno discutendo come mettere insieme i rispettivi dati. “BICCN ha un approccio bottom-up, mentre il nostro è top-down“, spiega Katrin Amunts, neuroscienziata alla Heinrich Heine Universität di Düsseldorf, in Germania, direttrice della ricerca scientifica per l’HBP.
L’obiettivo finale è costruire un osservatorio che possa integrare i dati di tutti questi progetti in un unico grande quadro. Quattro anni fa, con questa idea in mente, ricercatori che facevano parte dei grandi progetti pubblici si misero insieme per creare l’International Brain Initiative, un’organizzazione non strutturata che ha il compito principale di aiutare i neuroscienziati a trovare modi per raggruppare e analizzare i propri dati.
L’obiettivo di lunga durata è, secondo Koch, riuscire a manipolare i circuiti cerebrali per curare i disturbi neurologici.
“Il cervello è di gran lunga l’oggetto più incredibilmente complesso di materia attiva in tutto l’universo”, commenta. “Non c’è una bacchetta magica per capire come funziona, ma se scopriamo come è fatto l’hardware di base arriveremo a una comprensione meccanicistica dei suoi circuiti.”