Con il cibo, l’acqua e la respirazione ognuno di noi in un anno può arrivare ad assorbire fino all’equivalente, in massa, di una carta di credito di microparticelle di plastica. Gli studi sulla loro potenziale tossicità sono agli inizi ma sono resi complicati dalle loro ridottissime dimensioni.
Dunzhu Li aveva l’abitudine di riscaldare il pranzo nel microonde dentro un contenitore in plastica, ma ha smesso quando, assieme ad alcuni colleghi, ha fatto una scoperta allarmante: i contenitori in plastica per alimenti rilasciano nell’acqua calda un numero enorme di minuscole particelle (dette microplastiche). “Siamo rimasti sconvolti”, racconta Li, che è ingegnere ambientale.
Anche i bollitori e i biberon rilasciano microplastiche, come hanno riferito lo scorso ottobre Li e altri ricercatori del Trinity College di Dublino. Se i genitori sciolgono il latte in polvere agitandolo nell’acqua calda all’interno di una bottiglia di plastica, il bambino può finire per inghiottire oltre un milione di particelle di microplastica al giorno, secondo i calcoli del gruppo di ricerca.
Quello che Li e gli altri ricercatori ancora non sanno è se questo sia un pericolo. Tutti mangiamo e inaliamo sabbie e polveri e non è chiaro se l’aggiunta di particelle di plastica alla nostra dieta possa causare danni. “La maggior parte di quello che ingeriamo passa indenne attraverso l’intestino e viene espulso all’altra estremità”, spiega Tamara Galloway, ecotossicologa all’Università di Exeter, nel Regno Unito. “Io ritengo che si possa affermare che il rischio potenziale potrebbe essere alto”, commenta Li, scegliendo le parole con attenzione.
La scienza si preoccupa dei potenziali rischi delle microplastiche da quasi vent’anni, anche se la maggior parte degli studi si è concentrata sui rischi per gli animali marini. Richard Thompson, ricercatore di ecologia marina all’Università di Plymouth, nel Regno Unito, coniò il termine nel 2004 per descrivere particelle di plastica con un diametro inferiore a cinque millimetri, come quelle che il suo gruppo di ricerca aveva trovato sulle spiagge britanniche.
Da allora i ricercatori trovano microplastiche ovunque volgano lo sguardo: nelle profondità degli oceani, nella neve in Artide e nel ghiaccio in Antartide, in molluschi e crostacei, nel sale da cucina, nell’acqua potabile e nella birra, nell’aria che ci circonda e nella pioggia che cade sulle montagne e sulle città. Questi minuscoli frammenti possono metterci decenni o anche di più per degradarsi completamente. “È quasi certo che praticamente tutte le specie vi siano esposte a qualche livello”, afferma Galloway.
Le primissime ricerche effettuate sulle microplastiche si concentravano sulle microsfere presenti nei prodotti per l’igiene personale e sui granuli di plastica vergine che possono disperdersi prima di entrare nel processo con cui sono modellati in oggetti, come pure sui frammenti che l’erosione stacca poco alla volta da bottiglie abbandonate e altri detriti di grandi dimensioni.
Tutte queste plastiche finiscono nei fiumi e negli oceani: nel 2015 gli oceanografi hanno stimato che nelle acque di superficie di tutto il mondo galleggiavano tra 15 e 51 trilioni (migliaia di miliardi) di particelle di microplastica. In seguito sono state identificate anche altre fonti di microplastiche: per esempio, si staccano frammenti di plastica dagli pneumatici delle automobili sulle strade e gli abiti perdono microfibre sintetiche. Queste particelle volano sospese nell’aria al di sopra del mare e della terra, perciò è possibile che gli esseri umani inalino o mangino plastiche provenienti da qualsiasi fonte.
Da alcune limitate rilevazioni sui livelli di microplastiche presenti nell’aria, nell’acqua, nel sale e nei prodotti ittici, bambini e adulti potrebbero ingerire da qualche decina a oltre 100.000 particelle di microplastica ogni giorno, ha riferito lo scorso marzo Albert Koelmans, esperto di scienze ambientali all’Università di Wageningen, nei Paesi Bassi. Secondo Koelmans e colleghi, nei casi peggiori le persone ingeriscono ogni anno microplastiche per una massa totale equivalente a quella di una carta di credito.
Le autorità stanno facendo ora il primo passo per quantificare il rischio che le microplastiche rappresentano per la salute umana: misurare l’esposizione. A luglio il California State Water Resources Control Board, che fa parte dell’agenzia californiana per la tutela dell’ambiente, sarà il primo ente regolatore al mondo ad annunciare metodi standardizzati per quantificare le concentrazioni di microplastiche nell’acqua potabile, con l’obiettivo di monitorarne i livelli per i prossimi quattro anni e di riferire pubblicamente i risultati.
L’altra parte del problema consiste nel valutare gli effetti di quelle minuscole particelle di plastica su esseri umani e animali. È più facile a dirsi che a farsi. Oltre 100 studi di laboratorio hanno esposto alle microplastiche vari animali, soprattutto acquatici, ma i risultati (secondo cui l’esposizione potrebbe portare a una minore efficacia riproduttiva o a danni fisici per alcuni organismi) sono difficili da interpretare, perché le microplastiche includono frammenti con molte forme, dimensioni e composizioni chimiche diverse e molti studi usavano materiali abbastanza diversi da quelli che si trovano nell’ambiente.
I frammenti più piccoli, detti nanoplastiche (meno di un micrometro di diametro), sono quelli che preoccupano di più i ricercatori. Alcuni di essi potrebbero riuscire a entrare nelle cellule e quindi avrebbero il potenziale di disturbare l’attività cellulare. Ma la maggior parte di queste particelle è così piccola che gli scienziati non riescono neanche a vederle; non sono state contate nelle stime di Koelmans sulla dieta, per esempio, e la California non cercherà di monitorarle.
Una cosa è chiara: il problema può solo peggiorare. Ogni anno si producono quasi 400 milioni di tonnellate di plastica, una quantità che secondo le previsioni sarà più che raddoppiata entro il 2050. Anche se per magia tutta la produzione di plastica si interrompesse domani, quella già presente nelle discariche e nell’ambiente (che si stima raggiunga una massa totale di circa cinque miliardi di tonnellate) continuerebbe a degradarsi in frammenti minuscoli impossibili da raccogliere o da pulire, aumentando costantemente i livelli delle microplastiche. Koelmans la chiama “la bomba a orologeria della plastica”.
“Se mi chiedete dei rischi, oggi non ho paura – afferma – però sono un po’ preoccupato per il futuro, se non facciamo nulla”.
Possibili danni
I ricercatori hanno diverse teorie sui danni che i frammenti di plastica potrebbero causare. Se sono abbastanza piccoli da entrare nelle cellule o nei tessuti, possono provocare irritazione per il semplice fatto che sono una presenza estranea, come avviene con le fibre lunghe e sottili dell’amianto, che possono far infiammare il tessuto dei polmoni e causare il cancro.
C’è un potenziale parallelismo con l’inquinamento atmosferico: è noto che le particelle fuligginose provenienti da centrali elettriche, fumi di scarico delle automobili e incendi boschivi, chiamate PM10 e PM2,5 (particolato con diametro rispettivamente inferiore a 10 e a 2,5 micrometri), si depositano nelle vie aeree e nei polmoni e ad alte concentrazioni possono danneggiare il sistema respiratorio. Tuttavia i livelli di PM10 sono migliaia di volte superiori rispetto alle concentrazioni di microplastiche rilevate nell’aria, fa notare Koelmans.
Per le microplastiche più grandi, il più probabile tra gli eventuali effetti negativi è quello legato alla tossicità chimica. I produttori di plastica aggiungono composti come plastificanti, stabilizzanti e pigmenti, che in molti casi sono sostanze pericolose, per esempio perché interferiscono con il sistema endocrino (ormonale). Forse l’ingestione di microplastiche può aumentare significativamente l’esposizione a queste sostanze chimiche, però dipende dalla velocità con cui le sostanze escono dai frammenti di plastica e dalla velocità con cui i frammenti stessi attraversano il nostro corpo, due fattori che la ricerca sta appena iniziando a studiare.
Un’altra idea è che le microplastiche nell’ambiente possano caricarsi di inquinanti chimici e poi trasferirli agli animali che ingeriscono le particelle contaminate. Ma gli animali assumono comunque sostanze inquinanti presenti nel cibo e nell’acqua ed è perfino possibile che le microplastiche, se per la maggior parte non sono contaminate al momento dell’ingestione, possano aiutare a eliminare gli inquinanti dall’intestino dell’animale. I ricercatori non hanno ancora capito con certezza se le microplastiche cariche di inquinanti siano un problema significativo, afferma Jennifer Lynch, biologa marina affiliata allo US National Institute of Standards and Technology di Gaithersburg nel Maryland.
Forse il danno più immediato, almeno per quanto riguarda gli organismi marini, sta nel fatto che gli animali inghiottono frammenti di plastica privi di valore nutritivo e poi non mangiano a sufficienza per sopravvivere. Lynch, che dirige anche il Center for Marine Debris Research alla Hawaii Pacific University di Honolulu, ha effettuato autopsie su tartarughe marine trovate morte sulle spiagge e ha osservato la plastica che avevano nel sistema digerente e le sostanze chimiche che avevano nei tessuti. Nel 2020 il suo gruppo di ricerca ha effettuato analisi su nove tartarughe embricate con meno di tre settimane di vita. Una di esse, lunga appena nove centimetri, aveva 42 pezzi di plastica nel tratto gastrointestinale: erano soprattutto microplastiche.
“Riteniamo che nessuno di questi animali sia morto specificamente a causa della plastica”, afferma Lynch, ma si chiede se quelle piccole tartarughe abbiano avuto problemi a crescere al ritmo necessario. “A quell’età sono in una fase molto ardua della vita.”
Studi marini
La maggior parte degli studi sui rischi delle microplastiche riguarda gli organismi marini. Per esempio, gli animali che fanno parte dello zooplancton, che sono tra gli organismi marini più piccoli in assoluto, crescono più lentamente e hanno meno successo nella riproduzione in presenza di microplastiche, afferma Penelope Lindeque, biologa marina al Plymouth Marine Laboratory, nel Regno Unito: le loro uova sono più piccole e hanno meno probabilità di schiudersi. Gli esperimenti di Lindeque dimostrano che questi problemi di riproduzione derivano dal fatto che lo zooplancton non si nutre a sufficienza.
Però gli ecotossicologi hanno iniziato i loro esperimenti prima di sapere che tipi di microplastiche ci fossero effettivamente negli ambienti acquatici e quindi si sono affidati molto a materiali artificiali, in genere usando sfere di polistirolo più piccole e in concentrazioni molto superiori rispetto a quelle verificate in seguito nelle rilevazioni.
I ricercatori hanno iniziato a passare a condizioni ambientali più realistiche e a usare fibre o frammenti di plastica al posto delle sfere. Alcuni hanno iniziato a rivestire i materiali usati per i test con sostanze chimiche che imitano le biopellicole, la cui presenza sembra influire sulla probabilità con cui gli animali si nutrono delle microplastiche.
Sembra che le fibre siano particolarmente problematiche. Rispetto alle sfere, impiegano più tempo a essere espulse dall’intestino dello zooplancton, spiega Lindeque. Nel 2017 un gruppo di ricercatori australiani ha riferito che lo zooplancton esposto a fibre di microplastica produceva metà delle larve rispetto al normale e che, una volta raggiunta l’età adulta, gli animali erano più piccoli del solito. Le fibre non venivano ingerite, ma i ricercatori hanno osservato che esse interferivano con la capacità di nuotare e hanno identificato deformazioni nel corpo degli animali. Nel 2019 un altro studio ha scoperto che i granchi adulti della specie Emerita analoga esposti alle fibre avevano una vita più breve.
La maggior parte degli studi di laboratorio espone gli organismi a un solo tipo di microplastica, di forma e dimensioni specifiche e fatta di un polimero specifico. Nell’ambiente naturale gli organismi sono invece esposti a un miscuglio di microplastiche, sottolinea Koelmans. Nel 2019, insieme alla sua studentessa di dottorato Merel Kooi, il ricercatore ha riportato in forma di grafico le quantità di microplastiche rilevate in 11 misurazioni effettuate in oceani, fiumi e sedimenti, al fine di creare un modello della composizione delle microplastiche negli ambienti acquatici.
Lo scorso anno i due hanno collaborato con altri colleghi e hanno usato quel modello in simulazioni computerizzate per prevedere la frequenza con cui i pesci possono trovarsi davanti a microplastiche abbastanza piccole da poterle mangiare, e anche la probabilità che ne mangino abbastanza da avere un effetto sulla crescita. Il gruppo di ricerca ha determinato che con gli attuali livelli di inquinamento da microplastiche i pesci corrono questo rischio nell’1,5 per cento dei luoghi in cui sono state misurate le microplastiche. È però probabile che esistano zone dove il rischio è più alto, afferma Koelmans. Forse è questo il caso per le grandi profondità del mare: quando le microplastiche ci arrivano, e ancor più se finiscono sepolte nei sedimenti, come spesso succede, è improbabile che ne riemergano e non c’è modo di eliminarle.
Gli oceani devono già affrontare molti fattori di stress; Lindeque è più preoccupata del fatto che le microplastiche riducano ulteriormente le popolazioni di zooplancton che non del rischio che risalgano la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani. “Se distruggiamo una cosa come lo zooplancton, la base della rete alimentare marina, dobbiamo preoccuparci piuttosto degli impatti sulle riserve di pesce e sulla capacità di nutrire la popolazione mondiale.”
Studi sull’essere umano
Finora nessuno studio pubblicato ha esaminato direttamente gli effetti delle particelle di plastica sugli esseri umani, affermano i principali ricercatori. Gli unici studi disponibili si basano su esperimenti di laboratorio che hanno esposto a microplastiche cellule o tessuti umani oppure hanno usato animali come topi o ratti. In uno studio, per esempio, i topi che avevano ingerito grandi quantità di microplastiche presentavano infiammazioni all’intestino tenue. In altri due studi i topi esposti alle microplastiche presentavano una minore conta degli spermatozoi e una diminuzione del numero e delle dimensioni dei cuccioli rispetto ai gruppi di controllo.
Anche alcuni studi in vitro su cellule o tessuti umani suggeriscono l’esistenza di tossicità. Però, proprio come nel caso degli studi su animali marini, non è chiaro se le concentrazioni usate negli esperimenti siano paragonabili a quelle a cui i topi (o gli esseri umani) sono effettivamente esposti. Inoltre la maggior parte degli studi ha usato sfere di polistirolo, che non sono rappresentative della varietà di microplastiche ingerite dagli esseri umani.
Koelmans sottolinea anche che questi studi sono i primi del loro genere e di conseguenza quando avremo un corpus più completo potremmo scoprire che i valori al loro interno non sono rappresentativi. Gli studi in vitro sono più numerosi di quelli sugli animali, ma i ricercatori affermano di non sapere ancora come estrapolare gli effetti di particelle solide di plastica sui tessuti per dedurne possibili problemi di salute negli animali interi.
Un’altra domanda legata ai rischi è se le microplastiche possano restare nel corpo umano e magari accumularsi in certi tessuti. Gli studi sui topi hanno rilevato che le microplastiche con un diametro di circa cinque micrometri potevano fermarsi nell’intestino o raggiungere il fegato. Usando dati molto limitati sulla velocità con cui i topi eliminano le microplastiche e basandosi sull’ipotesi che solo una parte dei frammenti da 1-10 micrometri sarebbe assorbita nel corpo attraverso l’intestino, Koelmans e i suoi colleghi stimano che nel corso della vita una persona potrebbe accumulare nel corpo diverse migliaia di particelle di microplastica.
Alcuni ricercatori hanno iniziato a indagare la presenza di microplastiche nei tessuti umani. A dicembre un gruppo di ricerca ha documentato il primo tentativo di studio su sei placente: decomponendo il tessuto con una sostanza chimica e analizzando poi i resti, gli scienziati hanno trovato 12 particelle di microplastica in quattro placente.
Peraltro, non si può escludere che le particelle fossero derivate da una contaminazione avvenuta quando le placente sono state prelevate o analizzate, afferma Rolf Halden, ingegnere che si occupa di igiene ambientale alla Arizona State University a Tempe, che tuttavia loda i ricercatori per gli sforzi fatti per evitare la contaminazione, per esempio l’esclusione di qualsiasi oggetto di plastica dalla sala parto, e per aver dimostrato che un set di materiale di controllo prelevato con la stessa analisi non era contaminato. “Dimostrare definitivamente che una data particella derivi davvero da un determinato tessuto è una sfida continua”, spiega.
Chi è preoccupato per la propria esposizione alle microplastiche, la può ridurre, afferma Li. La sua ricerca sui contenitori per alimenti ha determinato che la quantità di particelle di plastica rilasciate dipende molto dalla temperatura; per questo Li ha smesso di usare contenitori di plastica nel microonde.
Per ridurre i problemi con i biberon, il suo gruppo di ricerca suggerisce ai genitori, dopo aver sterilizzato il biberon, di risciacquarlo con acqua fredda che è stata bollita in un bollitore di materiale diverso dalla plastica, in modo da lavare via eventuali microplastiche rilasciate durante la sterilizzazione. Inoltre possono preparare il latte in polvere in contenitori di vetro, versandolo nel biberon dopo che si è raffreddato. Adesso il gruppo di ricerca sta raccogliendo adesioni da genitori disposti a far analizzare campioni di urina e feci dei figli alla ricerca di microplastiche.
La parte delle nanoplastiche
Le particelle così piccole da poter penetrare nei tessuti, o persino nelle cellule, e rimanervi, sono quelle più preoccupanti ed è bene prestarvi più attenzione nei campionamenti ambientali, afferma Halden. Uno studio in cui sono state fatte inalare deliberatamente particelle estremamente piccole a femmine di topo incinte, per esempio, ha poi ritrovato quelle particelle in quasi tutti gli organi dei feti. “Dal punto di vista del rischio è questa la preoccupazione più grande, ed è qui che ci servono più dati.”
Per penetrare nelle cellule, di solito le particelle devono essere non più grandi di qualche centinaio di nanometri. Non esisteva una definizione formale di nanoplastiche fino al 2018, quando alcuni ricercatori francesi hanno proposto un limite massimo di un micrometro, tale che le particelle fossero abbastanza piccole da rimanere sospese in una colonna d’acqua dove gli organismi le possono consumare più facilmente, invece di sprofondare o di risalire in superficie come avviene con le microplastiche più grandi, spiega Alexandra ter Halle, chimica analitica all’Université Paul Sabatier di Tolosa, in Francia.
I ricercatori non sanno quasi nulla sulle nanoplastiche: esse sono invisibili e impossibili da raccogliere. Anche solo misurarle è un problema che la scienza ha difficoltà a risolvere. Possono usare microscopi ottici e spettrometri (che distinguono le varie particelle in base ai vari modi in cui interagiscono con la luce) per misurare la lunghezza, la larghezza e la composizione chimica di particelle di plastica fino a non meno di qualche micrometro.
Al di sotto di questa scala diventa difficile distinguere le particelle di plastica da quelle che non sono di plastica, per esempio sedimenti marini o cellule biologiche. “Stiamo cercando un ago in un pagliaio, ma l’ago è uguale alla paglia”, commenta Roman Lehner, esperto di scienza dei nanomateriali alla Sail and Explore Association, un’istituzione svizzera di ricerca senza scopo di lucro.
Nel 2017 ter Halle e colleghi hanno dimostrato per la prima volta l’esistenza di nanoplastiche in un campione prelevato dall’ambiente: acqua marina raccolta nell’Oceano Atlantico. La ricercatrice ha estratto solidi colloidali dall’acqua, ha filtrato tutte le particelle più grandi di un micrometro, ha bruciato ciò che rimaneva e ha usato uno spettrometro di massa (che frammenta le molecole e riordina i frammenti in base al peso molecolare) per confermare che nei resti erano presenti polimeri plastici.
Questo procedimento, però, non dava informazioni sulle dimensioni precise o sulla forma delle nanoplastiche. ter Halle si è fatta un’idea studiando le superfici di due contenitori di plastica degradati che ha raccolto durante la spedizione. Ha notato che gli strati esterni, per qualche centinaio di micrometri, erano diventati cristallini e friabili, perciò ritiene che anche le nanoplastiche che probabilmente si sono staccate da queste superfici possano essere così. Per ora, non potendo raccogliere nanoplastiche dall’ambiente, i ricercatori che effettuano studi di laboratorio usano altra plastica che macinano per ridurla in polvere, sperando di ottenere particelle simili.
Usare nanoplastiche fatte in casa ha un vantaggio: i ricercatori possono introdurre marcatori che li aiutano a tracciare le particelle all’interno degli organismi usati negli esperimenti. Lehner e i suoi colleghi hanno preparato particelle nanometriche di plastica fluorescente e le hanno messe sotto un tessuto creato a partire dalle cellule che rivestono l’intestino umano. Le cellule hanno assorbito le particelle, ma non hanno mostrato segni di citotossicità.
Trovare particelle di plastica incastrate in strati intatti di tessuto (per esempio con una biopsia) e osservarne gli eventuali effetti patologici darebbe risposta all’ultima parte del problema dei rischi delle microplastiche, sostiene Lehner. Sarebbe “altamente desiderabile”, afferma Halden. Tuttavia, per raggiungere i tessuti le particelle dovrebbero essere piccolissime, perciò entrambi i ricercatori ritengono che sarebbe molto difficile rilevarne la presenza con certezza.
Per raccogliere tutti questi dati ci vorrà molto tempo. ter Halle ha collaborato con alcuni ecologi per quantificare l’ingestione di microplastiche negli animali allo stato brado. Per analizzare solo le particelle oltre i 700 micrometri in circa 800 campioni di insetti e pesci ci sono volute migliaia di ore, racconta. Adesso i ricercatori stanno esaminando le particelle tra 25 e 700 micrometri. “È difficile e noioso, e passerà molto tempo prima di avere i risultati”, sostiene. Per osservare le particelle più piccole, aggiunge, “la difficoltà è esponenziale”.
Non c’è tempo da perdere
Per il momento i livelli di microplastiche e nanoplastiche nell’ambiente sono troppo bassi per avere un effetto sulla salute umana, secondo i ricercatori. Però le particelle continueranno ad aumentare di numero. Lo scorso anno alcuni ricercatori hanno elaborato proiezioni secondo cui la quantità di plastiche che ogni anno si aggiungono ai rifiuti esistenti (smaltite con attenzione in discariche sigillate o sparse sulla terra e sul mare) potrebbe più che raddoppiare, passando da 188 milioni di tonnellate nel 2016 a 380 milioni di tonnellate nel 2040. A quel punto, secondo le stime del gruppo di ricerca, circa dieci milioni di quelle tonnellate potrebbero essere sotto forma di microplastiche, e il calcolo non include le particelle che continuano a prodursi dall’erosione dei rifiuti esistenti.
Ridurre un po’ la quantità di rifiuti di plastica che produciamo sarebbe possibile, afferma Winnie Lau del Pew Charitable Trusts di Washington, prima autrice dello studio. Il gruppo di ricerca ha determinato che, se nel 2020 si fossero adottate tutte le soluzioni comprovate per ridurre l’inquinamento dovuto alla plastica (inclusi il passaggio a sistemi di riuso, l’adozione di materiali alternativi e il riciclo della plastica) e poi se ne fosse intensificata la pratica il più rapidamente possibile, la quantità di rifiuti plastici aggiuntivi sarebbe potuta scendere drasticamente fino ad assestarsi a 140 milioni di tonnellate l’anno nel 2040.
Risultati di gran lunga più importanti si otterrebbero eliminando la plastica che viene usata una sola volta e poi buttata via. “Non ha senso produrre cose che durano 500 anni e poi usarle per 20 minuti”, commenta Galloway. “È uno stile di vita del tutto insostenibile.”
Fonte: Le Scienze