Il teologo Vito Mancuso formula una diagnosi nel suo splendido saggio: non sappiamo più distinguere il bene dal male. E propone una terapia: passare dall’antropo-centrismo all’albero-centrismo. L’albero come simbolo e come metodo per praticare la scienza (sistemica) del bene e del male.

1. Argomento
L’albero della conoscenza del bene e del male non è solo un classico dell’esegesi biblica e della teologia, è anche un simbolo della condizione dei nostri giorni e dei nostri cuori inquieti. L’espressione compare per la prima volta in Genesi 2,9, cioè nel più antico resoconto biblico della creazione del mondo, datato dagli studiosi verso il IX secolo a.C., più o meno quando Omero componeva l’Iliade e l’Odissea. Io però non mi soffermerò sull’esegesi biblica e sui grandiosi temi teologici che ne sono scaturiti, quali la questione del libero arbitrio, il peccato originale (che per il cristianesimo è un dogma e per l’ebraismo non esiste), l’origine e la natura della morte, la possibilità di ritrovare la vita mediante la salvezza, e, interessantissimo, la natura del serpente, temi ai quali mi sono dedicato nei miei scritti teologici. Ritengo invece più opportuno presentare una riflessione filosofica, più precisamente di filosofia morale.

2. Diagnosi
La domanda da cui prendo spunto è: come siamo messi oggi quanto alla conoscenza del bene e del male? Non mi riferisco alla conoscenza degli eventi connotabili come bene e come male, rispetto alla quale siamo senza dubbio più avanti rispetto al passato, se non altro per un semplice motivo di potenza tecnologica. Mi riferisco ai criteri che presiedono la definizione del bene e del male, e che ci permettono di dire “questo è bene, questo è male”. Non solo; mi riferisco anche e soprattutto alle motivazioni che ci spingono a fare il bene e a non fare il male, secondo l’assioma da sempre sentito come indiscutibile dalla coscienza dell’umanità e che una massima latina riassume così: Bonum faciendum, malum vitandum (“il bene va fatto, il male evitato”). Ebbene, oggi quanti sono coloro che si ritrovano del tutto sicuri che sia così, che il bene cioè vada sempre fatto e il male sempre evitato?
Kant non aveva dubbi al riguardo e compendiò tutta la sua filosofia morale nel suo imperativo categorico fondato sul sentimento del rispetto della legge morale, dando così per vero che negli esseri umani degni di questo nome il sentimento del rispetto della morale debba costituire la motivazione principale dell’agire. Ma dopo di lui vennero Marx, Nietzsche e Freud, per i quali la morale non è nulla di originario, bensì una costruzione posteriore e interessata, anzi una sovrastruttura oppressiva (per Marx della classe dominante, per Nietzsche dei deboli, per Freud della società borghese sessuofoba). E la partita la vinsero loro, denominati da Ricoeur “maestri del sospetto” precisamente per il loro mettere in dubbio la fondazione originaria dell’etica nella natura umana, con il risultato che oggi i più ritengono che l’etica sia una semplice convenzione che varia a seconda dei tempi, dei luoghi e degli individui, e che l’essere umano evoluto (tanto più se maschio, occidentale e benestante) può serenamente infrangere a favore della sua volontà di potenza. Per questa incapacità di indicare una condivisa fondazione dell’etica oggi viviamo in un contesto di decadenza morale e spirituale. A mio avviso è quindi necessaria una nuova fondazione dell’etica, una rifondazione degna di poter sussistere di fronte alla coscienza contemporanea spesso preda dell’ermeneutica del sospetto. Essa si dovrebbe esprimere anzitutto nella capacità di rispondere a questa domanda: perché si deve fare il bene piuttosto che il male? Perché lo si deve fare anche quando non conviene, ed esiste la possibilità di sfuggire al controllo esercitato del diritto? Perché essere giusti ed esserlo sempre, anche quando l’ingiustizia appare più plausibile e più conveniente? Perché essere onesti, e non furbi?
Le risposte di un tempo, che rimandavano alla religione, alla tradizione o all’ideologia politica, oggi non tengono più. Oggi tutti siamo più o meno “al di là del bene e del male”, e quindi l’albero del bene e del male nel giardino della nostra coscienza soffre di una malattia letale che ha colpito le sue stesse radici.

3. Terapia
Di fronte a questa diagnosi, la mia terapia consiste nell’indicare la natura quale criterio decisivo per tornare a parlare con legittimità di bene e di male. La mia tesi consiste cioè nel sostenere che oggi è precisamente l’albero, simbolo per eccellenza della natura, il soggetto che ci può far tornare a conoscere il bene e il male nella loro oggettività. Intendo dire che ai nostri giorni l’etica in quanto scienza del bene e del male può ritrovare nella natura il suo punto di riferimento condiviso.
Dobbiamo passare dall’antropo-centrismo all’albero-centrismo: dalla visione che sottomette all’uomo tutte le cose, a quella che intende servire l’equilibrio naturale simboleggiato dall’albero. Si tratta più precisamente di convertire l’antropocentrismo passando dalla visione che sottomette all’uomo tutte le cose, a quella che intende porre il suo innegabile primato cognitivo a servizio dell’equilibrio naturale. Anche solo per un motivo di sostenibilità. È questo il cambio radicale di visione che il nostro tempo ci impone nel segno di una ecologia profonda, o anche ecosofia, per riprendere la terminologia coniata al riguardo dal filosofo e alpinista norvegese Arne Naess, che fu il primo a distinguere tra ecologia superficiale ed ecologia profonda coniando il termine ecosofia.
Con ecologia profonda o ecosofia non si intende solo l’ecologia come rispetto dell’ambiente che si traduce nella tutela dell’aria, dei boschi, delle acque, dei monti, della vita del pianeta nel suo insieme; si intende anche l’ecologia in quanto visione che pensa l’essere umano e il mondo in stretta unità perché sa che il mistero dell’uomo è comprensibile solo indagando la natura del mondo.
Io però sono personalmente convinto che valga anche la prospettiva opposta: che il mistero del mondo diviene a sua volta veramente comprensibile solo indagando la natura dell’uomo. È necessario cioè l’esercizio di un pensiero dialettico: il mondo e l’essere umano sono una cosa sola e insieme non sono una cosa sola. Il che significa che la filosofia deve svilupparsi come ecosofia senza però ridursi a ecosofia. Penso, in altri termini, che vada superato l’antropocentrismo che rimanda alla metafisica dualista della sovrannatura, senza per questo cadere nell’estremo opposto del naturalismo che non coglie nessuna differenza tra l’uomo e gli altri viventi. Noi siamo animali, ma non siamo solo animali.

4. Mistero
Ho fatto coscientemente uso del termine mistero, uno dei termini più abusati in ambito teologico, vero e proprio refugium theologorum et episcoporum. Per spiegare cosa intendo con questo termine ricorro a un celebre passo di Einstein:

La cosa più lontana dalla nostra esperienza è ciò che è misterioso. È l’emozione fondamentale accanto alla culla della vera arte e della vera scienza. Chi non lo conosce e non è più in grado di meravigliarsi, e non prova più stupore, è come morto, una candela spenta da un soffio. Fu l’esperienza del mistero – seppure mista alla paura – che generò la religione. Sapere dell’esistenza di qualcosa che non possiamo penetrare, sapere della manifestazione della ragione più profonda e della più radiosa bellezza, accessibili alla nostra ragione solo nelle loro forme più elementari – questo sapere e questa emozione costituiscono la vera attitudine religiosa; in questo senso, e solo in questo, sono un uomo profondamente religioso. (Albert Einstein, Il mondo come io lo vedo [1934], in Il significato della relatività. Il mondo come io lo vedo, a cura di Emanuele Vinassa de Regny, tr. di Walter Mauro, Newton Compton, Roma 2014, p. 165. Corsivi miei.)

Quando parliamo di natura non parliamo solo di una realtà che sta là fuori; parliamo anche e soprattutto di una realtà che sta anche qui dentro, cioè della stupefacente configurazione dell’essere che si dice come energia vitale, materia-mater, natura naturans e che dà come esito la libera intelligenza, la passione ideale, il cuore. Non a caso il termine latino natura viene dal verbo nasci, nascere; così come il termine greco physis viene dal verbo phuo, che significa generare. È la generazione dell’essere in tutte le sue forme vitali (denominate dal greco bioszoépsyché e nous) che va contemplata, tutelata, insegnata. Si tratta cioè di comprendere che è unitario l’essere che si manifesta nelle diverse forme ora come vita biologica, ora come vita zoologica, ora come vita psichica, ora come vita noetica o spirituale.

5. La natura come punto fermo (ma non immobile)
Io penso che la natura rappresentata dall’albero sia il luogo dove lasciarsi di nuovo educare alla classicità dell’oggettività. La natura infatti possiede un canone e insegna un canone, intendendo con questa parola esattamente ciò che dice il suo etimo, visto che canone viene da canna in quanto strumento di misurazione. Il canone è la misura. L’estetica è misura, armonia, proporzione, equilibrio – per quanto mai in modo statico ma sempre dinamico e processuale. L’etica a sua volta è misura, armonia, proporzione, equilibrio – per quanto mai in modo statico sempre dinamico e processuale.
La natura infatti ha le sue esigenze, la cura di un giardino o di un bosco richiede precise condizioni, e se vogliamo far vivere una pianta nei nostri appartamenti dobbiamo esporla a una certa quantità di luce e darle una certa quantità di acqua. Lo stesso vale per la salute dei nostri corpi e per ogni altro fenomeno naturale. Contrariamente a Nietzsche secondo cui “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, la natura ci educa al senso della realtà: in essa non ci sono solo interpretazioni, ci sono anche e soprattutto fatti. Ci sono gesti che possono incrementare il benessere e gesti che possono incrementare il malessere.
Per questo la natura ci educa alla riscoperta della realtà e del suo primato, consegnando la nostra mente e le nostre mani alla terra di un nuovo e più consapevole realismo. Io penso che sia per questo che gli esseri umani legati alla terra sono solitamente più affidabili, più onesti, più veritieri: con la natura infatti non si può mentire e il contatto quotidiano con essa educa alla veridicità e alla autenticità.
La natura ci insegna il culto della realtà, vale a dire il primato del bene sul male, dato che il bene consiste esattamente in questo, nel servizio oggettivo della realtà, in particolare in ciò che Albert Schweitzer definiva Ehrfurcht vor dem Leben, espressione solitamente tradotta con “rispetto della vita”, e che a mio avviso andrebbe resa meglio con “riverenza verso la vita”. Non si tratta infatti solo di un rispetto giuridico, c’è anche una riverenza spirituale da nutrire verso la vita, verso questa meraviglia assoluta scaturita dal freddo e dal silenzio degli spazi cosmici e dalla fucina incandescente delle stelle

6. Natura maestra
C’è un’ultima cosa che vorrei dire. La natura ci insegna anche il metodo mediante cui praticare la scienza del bene e del male. Una cosa infatti appare evidente a chi l’osserva con una certa attenzione: che essa è un sistema formato da moltissimi altri sistemi. L’albero è un sistema (radice, tronco, rami, foglie, frutti; e poi cellule formate da molecole, e queste formate da atomi, e questi a loro volta formati da particelle subatomiche, le quali possiedono una natura tanto corpuscolare quanto ondulatoria) inserito in un sistema (bosco, foresta, parco…). E quello che vale per l’albero, vale per ogni altro fenomeno naturale, a partire dall’aria che respiriamo: non c’è nulla che non sia un sistema.
La natura quindi, simboleggiata dall’albero del bene e del male, ci insegna veramente che cos’è il bene e che cos’è il male. Il bene è ciò che introduce energia positiva nel sistema, favorendone la coesione e lo sviluppo: l’acqua in misura adeguata, la luce in misura adeguata, una buona parola, uno sguardo amichevole, la custodia di una confidenza mediante il silenzio, la fedeltà ai patti, un pasto caldo, un aiuto economico… E che cos’è il male? È ciò che introduce energia negativa nel sistema bloccandolo nello sviluppo e producendone la lacerazione: l’assenza di acqua e di luce, o la troppa acqua e la troppa luce, una parola velenosa, uno sguardo ostile, il tradimento di una confidenza mediante la delazione… E perché quindi si deve fare il bene, e farlo sempre, anche quando non conviene? Perché veniamo dal bene e facendolo staremo bene. Il benessere, naturale e soprattutto spirituale, è ciò che il bene dona a chi lo coltiva.
Orfano di ideologie politiche e di fedi religiose in grado di dare unità a noi occidentali postmoderni, il nostro tempo ha urgente bisogno di ritrovare un criterio del bene e del male, nonché della bellezza, perché etica ed estetica vanno sempre di pari passo. Il senso di questo mio contributo è consistito nel sostenere che tale criterio è dato dall’albero, il simbolo più familiare e insieme più solenne di Madre Natura.

 

FonteAboca Live Magazine

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