Paola Verde, specialista dell’Aeronautica Militare: dalle protesi in titanio alle ricerche sull’Alzheimer, la microgravità spalanca i prossimi scenari della biomedicina.
“Sono moltissime le applicazioni in campo medico che derivano direttamente dal campo aerospaziale. Pochi lo sanno, ma molte persone vivono più a lungo grazie a ciò che ci ha offerto e farà la medicina aerospaziale”.
Paola Verde è un ufficiale medico sperimentatore di volo dell’Aeronautica Militare. Napoletana, si è specializzata con la Royal Air Force britannica, ha volato sui caccia F-16 e ha maturato esperienze in Afghanistan e Kosovo: “Ma tra le più drammatiche c’è stato l’inizio della pandemia in Italia e noi dell’Aeronautica ci siamo stati fin dal primo giorno”.
Ora addestra per la parte biomedica i piloti dell’Aviazione e i candidati astronauti. Lei ha ottenuto la qualifica di “space flight surgeon” nel Centro d’addestramento Yuri Gagarin a Mosca. “Ho conosciuto Valerij Poliakhov – dice –, ancora oggi recordman con una singola missione di 14 mesi in orbita. Ed è un medico spaziale. Le lunghe permanenze dei cosmonauti ci hanno insegnato molto. Avveniva sulla stazione russa Mir così come ora avviene sulla Stazione Spaziale Internazionale”.
Sono numerose le ricadute in termini di spin-off dal settore aerospaziale: dalle protesi in titanio, pressoché indistruttibili, alla miniaturizzazione dei bypass coronarici, fino alla macchina cuore-polmone, sviluppata negli Usa sotto la guida dell’astronauta più celebre, Neil Armstrong. “Dallo spazio, proprio grazie ai disagi che l’assenza di peso provoca, – aggiunge – abbiamo imparato come intervenire, se non per curare quantomeno per rallentare, alcuni processi di invecchiamento: per esempio l’osteoporosi”.
“Ora siamo sempre più concentrati sugli aspetti psicologici e cognitivi, compresi gli studi su come ritardare l’Alzheimer – aggiunge -. In orbita diminuisce la concentrazione e l’isolamento di sicuro non aiuta”. E poi c’è il famoso mal di spazio, che colpisce quattro astronauti su 10. “Accade nei primi tre-quattro giorni di missione. Poi ci sono i problemi dell’ipotensione ortostatica al rientro e gli effetti della microgravità su muscoli ed ossa dopo le missioni di lunga durata. E anche questi aspetti ci hanno insegnato molto, dando il via a una serie di studi per migliorare la qualità della vita di chi ha riportato traumi importanti”.
Quasi la metà dei 234 esperimenti sulla Stazione Spaziale sono di biomedicina. “Tra i tanti, ci si focalizza su come e quanto le radiazioni possano influire sul corpo umano. Sappiamo che influiscono, eccome, ma nell’orbita terrestre e quindi con dosi minime. Saranno le prossime missioni in orbita lunare a fornirci maggiori dati”. Intanto sono stati sperimentati speciali sistemi di assorbimento ad acqua, anche con giubbotti indossati dagli astronauti stessi, ma si studiano soluzioni avanzate per contrastare le particelle ionizzanti, emesse dai raggi cosmici, sia di origine galattica (risultanti dall’esplosione delle supernove) sia di origine solare, provocati dalle eruzioni della nostra stella.
Ci sono poi le radiazioni non ionizzanti: comprendono le onde elettromagnetiche nelle zone dello spettro ultravioletto, visibile, infrarosso e delle microonde. Possono diventare un pericolo, particolarmente per gli occhi, e quindi è necessario proteggere gli astronauti dotando i caschi e gli oblò dei veicoli spaziali di speciali filtri schermanti.
“Sto studiando le performance del personale che opera a bordo degli aerei durante gli aviolanci ad alta quota per capire se, in determinate condizioni di bassa pressione e bassa temperatura, tutto si svolga regolarmente, senza particolari criticità sia dal punto di vista fisico sia mentale”. Un aspetto strettamente legato è il carico cognitivo: “A bordo l’ergonomia cognitiva rappresenta una delle sfide più grandi”.
Fonte: La Stampa