L’idea è quella di impiegare nuovi materiali metallorganici o MOF (metal-organic framework) per estrarre le molecole d’acqua dall’aria secca del deserto, immagazzinarle e rilasciarle come acqua potabile pulita. Da qui si sono sviluppati negli ultimi anni gli studi condotti parallelamente dal gruppo di ricerca dell’Università di Berkeley in California, guidato da Omar Yaghi, e dal team di Evelyn Wang del MIT. Riuscire a produrre acqua potabile dall’aria del deserto significa essere potenzialmente in grado di combattere la crisi idrica globale.
Oltre il 50% della popolazione mondiale soffre di stress idrico e il numero è in continuo aumento a causa del cambiamento climatico, della crescita della popolazione e del continuo inquinamento delle acque. In alcuni paesi il miglioramento dei sistemi di gestione dell’acqua sta attenuando i danni, ma nel complesso sarà necessaria una fonte supplementare di acqua dolce, soprattutto nelle zone aride. A oggi, la desalinizzazione è la strategia più sviluppata, ma praticabile solo per le regioni costiere. Al contrario, la generazione diretta di acqua dall’umidità atmosferica garantisce la produzione di acqua dolce in maniera decentralizzata. In particolare, la raccolta di acqua per mezzo di “spugne” metallorganiche è molto semplice dato che, anche nelle regioni più aride, l’atmosfera è ricca di acqua; infatti, si stima che nell’atmosfera ci siano 13 mila milioni di milioni di litri di acqua sotto forma di vapore o goccioline, presenti anche nei deserti, dove l’umidità varia dal 35% circa durante le ore notturne fino a raggiungere il 5-7% nel giorno. Questo è un grande vantaggio rispetto a processi già conosciuti, come la raccolta di nebbia per mezzo di grandi reti, la quale presenta limiti nell’estensione su larga scala e soprattutto dipende fortemente dalle condizioni ambientali. Questo nuovo metodo, invece, potrebbe fornire un accesso distribuito, gestito dalla comunità e senza costi ambientali, funzionando inoltre benissimo in un clima arido e secco come quello desertico.
I MOF sono infatti sostanze formate da complessi metallici e molecole organiche, connesse tra loro in una superficie reticolare che conferisce una notevole porosità e la capacità d’immagazzinare al loro interno grandi quantità di vapore acqueo o gas: un MOF delle dimensioni di una zolletta di zucchero può infatti avere una superficie interna pari a sei campi da calcio. Nel caso dei materiali metallorganici impiegati per i raccoglitori di acqua, le cavità e i canali che si formano all’interno della struttura permettono la formazione di aggregati di molecole d’acqua tenuti insieme da legami idrogeno; il calore e la luce solare possono facilmente rompere questo tipo di legame chimico, liberando l’acqua intrappolata nella struttura.
La collaborazione tra i gruppi sopra citati ha portato allo sviluppo di un dispositivo, chiamato solar-powered harvester, contenente le polveri di MOF, che ha dato risultati promettenti pubblicati nelle riviste di più alto livello come Nature e Science. I primi test del team di Yaghi sono stati effettuati a Scottsdale, in Arizona, utilizzando il MOF-801 a base di zirconio, materiale estremamente costoso. Con questo sistema è stato possibile produrre 200 ml di acqua al giorno per ogni kg di materiale assorbitore. Il passo successivo è stato sostituire lo zirconio con l’alluminio nel MOF-303, che si è rivelato particolarmente efficace nell’estrarre tracce di umidità dall’aria. L’alluminio è centinaia di volte più economico dello zirconio ed è in grado di produrre il doppio dell’acqua. Nello specifico, questo materiale è stato testato nella Death Valley, tra California e Nevada, dove le temperature diurne possono superare i 50 gradi centigradi e dove l’umidità è intorno al 25% di media.
Il dispositivo sviluppato è costituito da due scatole “matrioska”. Il contenitore interno contiene uno strato di materiale metallorganico. La scatola esterna, invece, è un cubo di plastica trasparente il cui coperchio viene lasciato aperto nelle ore notturne poiché il contenuto di acqua nell’atmosfera è maggiore. In questo modo il materiale assorbe l’umidità come se fosse una spugna. Durante il giorno la scatola chiusa si scalda come una serra sotto i raggi del sole. Quando il MOF si riscalda, le molecole d’acqua escono dalla struttura condensando sulle pareti del contenitore esterno e vengono poi raccolte come acqua liquida.
La particolarità di queste “spugne” metallorganiche è che non lasciano tracce di impurità. Questo vuol dire che l’acqua raccolta è pura, si può bere subito.
Il promettente studio sui MOF-303 si sta avviando alla commercializzazione. Attualmente è supportato dal programma statunitense Atmospheric Water Extraction della DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) con un investimento iniziale di 5,4 milioni di dollari per la ricerca e lo sviluppo di un dispositivo ancora più efficiente dell’attuale. Un progetto che coinvolge oltre a Yaghi e i suoi colleghi un team della General electric (GE) e altri due gruppi universitari (uno guidato dalla chimica teorica computazionale Laura Gagliardi dell’Università di Chicago e l’altro dall’ingegnere chimico Grant Glover dell’Università del South Alabama). L’obiettivo principale è quello di sostituire le opzioni attuali e ridurre i costi del trasporto di forniture d’acqua alle truppe sul campo. Questo vuol dire che le truppe di combattimento, le squadre di soccorso in caso di calamità e altre in regioni remote, lontane da fonti di acqua potabile, potrebbero beneficiare di stazioni di queste “oasi portatili”. I ricercatori stanno lavorando per trasformare il loro progetto in sistemi di idratazione in grado di ricavare acqua fresca quasi in ogni angolo del mondo e in qualsiasi condizione ambientale. In futuro, questi materiali potrebbero rivelarsi un’ancora di salvezza per le persone colpite da siccità e consentire un accesso più equo e sostenibile alle riserve idriche per tutti.
Fonte: Scienza in Rete