La giurisprudenza derivante dalle questioni inerenti alla difesa dell’ambiente si arricchisce ogni giorno di nuovi elementi. È ora il caso dell’inquinamento causato dalla plastica e dalle sostanze PFAs.
I PFAs costituiscono un tipo di materia plastica dotata di caratteristiche speciali, perché resistente a quasi tutti i prodotti chimici, alle alte temperature, all’acqua e alle sostanze oleose.
Si tratta di materiali che fanno ormai parte del nostro vivere quotidiano, perché presenti negli imballaggi (anche e soprattutto degli alimenti), negli utensili per la cucina (si pensi al Teflon), nei cosmetici, negli indumenti come il Gore-Tex, in molti rivestimenti, etc. Per le loro caratteristiche, questi materiali sono utilizzati comunemente nei sistemi e nell’abbigliamento antincendio, ad esempio.
Essendo praticamente impossibili da distruggere, i PFAs si disperdono nell’ambiente, spesso in forma micronizzata, penetrano nelle falde acquifere, raggiungono i prodotti agricoli e quindi gli alimenti, determinando rischi significativi all’umanità e grandi problemi di risanamento ambientale.
I governi e gli scienziati concordano che la contaminazione da plastica non abbia analoghi nella storia umana: ogni minuto, un camion pieno di queste sostanze finisce nei nostri oceani.
Il persistente inquinamento nocivo degli imballaggi di materiali plastici ha ormai raggiunto ogni angolo del pianeta e la loro ingestione uccide ogni anno milioni di uccelli e animali marini.
Neanche a dirlo, anche la pandemia sta ritardando gli sforzi per frenare l’uso di queste materie, perché il confinamento ha incrementato l’uso delle spedizioni e degli imballaggi, le industrie produttrici hanno ottenuto di definire i propri servizi come “essenziali” e la finanza internazionale continua a investire su di esse ingenti capitali.
Secondo il report Bankrolling Plastics di Portfolio Earth, tra il 2015 e la fine del 2019, le più importanti banche mondiali hanno fornito prestiti e sottoscrizioni per oltre 1,7 trilioni di dollari alle maggiori aziende operanti nel settore dei polimeri e degli imballaggi in plastica per i beni di largo consumo, nonostante molti governi stiano riscrivendo le regole della finanza internazionale, facendo sì che le banche siano in qualche modo responsabili per i danni causati dalle aziende cui fanno credito.
“Il prestito bancario alla filiera della plastica finisce col contribuire all’inquinamento dell’ambiente”, ha affermato Robin Smale, direttore di Vivid Economics. “Le banche – ha proseguito – devono contribuire a ridurre l’inquinamento da plastica in ogni modo, ad esempio allineando i loro portafogli con le politiche pubbliche sulla riduzione, riutilizzabilità e riciclaggio della plastica e cessando di finanziare nuovi impianti per la produzione di imballaggi di plastica”.
In pratica, si stanno riscrivendo allo stesso tempo le regole della finanza verso un’economia più sostenibile e quelle della responsabilità civile da inquinamento.
Evoluzione del contenzioso e difficoltà a individuare le sorgenti
Nel frattempo, come accennavamo, il contenzioso si è evoluto negli anni, ma finora si è limitato più che altro ad azioni collettive di risarcimento contro i produttori di PFAs e contro le società riconosciute come responsabili della contaminazione delle acque, soprattutto in alcune zone degli Stati Uniti. Ne sono conseguiti accordi anche milionari, ma il coinvolgimento degli assicuratori è rimasto contenuto in risarcimenti economici di piccolo importo o al rimborso dei costi di difesa.
Il problema è che l’estrema diffusione di questi elementi, paradossalmente, determina una grande difficoltà ad allocare la responsabilità. È un po’ quello che succede quando ci occupiamo dell’inquinamento diffuso presente nell’aria delle grandi città: è quasi impossibile appurare quale sia la sorgente da perseguire ed è molto difficile determinare quale entità possa essere riconosciuta come responsabile. Insomma, sono pochissimi i casi in cui è stato individuato un colpevole e si è potuta indirizzare una richiesta di risarcimento a una società precisa e al suo eventuale assicuratore.
Inoltre, se in Europa la normativa conosciuta come ELD (Environmental Liability Directive) impone a chi ha inquinato di riparare il torto (purché tale soggetto sia identificabile, ben inteso), in altre parti del mondo sono ancora tanti gli interrogativi che riguardano l’operatività delle clausole presenti nelle polizze di responsabilità.
Ci si chiede, infatti, se i wording tradizionali siano in grado di coprire l’inquinamento da PFAs e le sue eventuali conseguenze sul corpo umano, perché spesso la plastica non è definita come elemento inquinante, né come contaminante. Inoltre, non è chiaro se le lesioni causate da questi materiali possano far scattare il dovere di difesa degli assicuratori e se le coperture da attivare, ad esempio, riguardino la responsabilità da prodotto difettoso o il richiamo dei prodotti ittici contaminati.
Incredibile diffusione ed effetti delle microplastiche
L’uso della plastica è esploso dagli anni ‘60 ed è aumentato in maniera esponenziale dal 1964 ad oggi.
Questa escalation e la non degradabilità di questi materiali hanno fatto sì che essi si infiltrassero in tutti gli angoli del globo, rappresentando un crescente pericolo per la salute degli esseri viventi.
La plastica, com’è noto, si disgrega ma non si decompone mai completamente.
Definiamo microplastiche le particelle di dimensioni tra 0,1 e 5000 micrometri, in forma di granuli o microsfere, che, in base alla loro origine, possono essere suddivise in due categorie principali:
le microplastiche primarie, che vengono rilasciate direttamente nell’ambiente, come quelle che derivano dall’abrasione degli pneumatici sulle strade o vengono aggiunte intenzionalmente nei prodotti per la cura del corpo (come le micro-particelle dello scrub facciale);
le microplastiche secondarie, che vengono prodotte dalla degradazione degli oggetti di plastica più grandi (buste di plastica, bottiglie, oggetti, reti da pesca, etc.), che costituiscono quasi il 70% delle microplastiche presenti nell’oceano.
Secondo uno studio australiano, ogni persona ingerirebbe cinque grammi di plastica alla settimana e circa 70mila particelle di microplastica all’anno, ma gli effetti di questo materiale sulla salute non sono stati ancora verificati con esattezza.
Alcuni report medici suggeriscono che queste sostanze siano in grado di attraversare la membrana che protegge il cervello, veicolate dal flusso sanguigno. Altri affermano che rilascino elementi chimici dannosi, in grado di interferire con il sistema ormonale, riducendo la fertilità negli esseri umani e attraversare la placenta.
Secondo uno studio dell’EEA (European Environment Agency), i costi derivanti dall’esposizione ai PFAs per la società europea sono assai elevati, e si aggirerebbero tra i 50 e gli 80 miliardi di euro solo per quanto attiene ai costi per la salute. Si tratta di cifre probabilmente sottostimate, perché limitate agli effetti relativi ad alcune patologie, come il cancro e le malattie al sistema immunitario.
Ma c’è da considerare che l’inquinamento colpisce anche gli ecosistemi e genera costi enormi per la bonifica del suolo e dell’acqua. Sono costi attualmente difficili da valutare, perché le informazioni sul numero e sull’entità dei siti contaminati sono ancora insufficienti.
Le sostanze PFAs, ad esempio, sono state rilevate nell’aria, nel suolo e nelle piante, e si è riscontrato come l’acqua potabile risulti contaminata intorno alle fabbriche in Belgio, Italia e nei Paesi Bassi, nonchè attorno agli aeroporti e alle basi militari in Germania, Svezia e Regno Unito.
Il numero totale di siti in grado di produrre inquinamento da PFAs in Europa è stato stimato nell’ordine di 100mila unità già nel 2019 (fonte EEA) e uno studio dell’Oms ha documentato la contaminazione causata da queste sostanze nell’acqua potabile di 21 comuni del Veneto, in un’area che conta oltre 120mila abitanti. Successivamente, un monitoraggio condotto dalle autorità della regione ha rilevato la presenza di PFAs in oltre il 60% dei siti censiti.
Per dare un’idea, dal momento che queste sostanze sono state incluse nella lista dei materiali pericolosi già a partire dalla EU Water Framework Directive del 2013 (la direttiva quadro sull’acqua potabile), la Commissione Europea ha proposto un valore limite di 0,1 µg/L per ogni individuo, che è stato superato 130 volte per i Pfos e 66 volte per i Pfoa, nei campioni prelevati nella Regione Veneto. (ndr: Pfoa – acido perfluoro-ottanoico e Pfos – perfluoro-ottano-sulfonato, sono le tipologie di PFAs più diffuse, tra le oltre 4.500 esistenti).
Come funziona la contaminazione da PFAs
Data l’ampiezza del fenomeno, quindi, una volta definito il modo di inchiodare una fonte alle proprie responsabilità e determinato il nesso causale tra l’ingestione o l’esposizione alle microplastiche con gli effetti nocivi sulla salute (il che è considerato come un dato di fatto da molti studiosi), è ipotizzabile che si scateni un contenzioso a livello planetario nei confronti dei produttori di questi materiali e delle aziende che li utilizzano. E, perchè no?, anche nei confronti degli istituti bancari che supportano finanziariamente la loro attività.
Tutto quanto precede inquadra questo tipo di esposizioni nei cosiddetti rischi emergenti, perché concerne problematiche che non si sono mai presentate in passato e rischiano di coinvolgere i sottoscrittori in una grave escalation per l’industria assicurativa.
Spiegare precisamente cosa sarebbe coperto e cosa no, costituisce dunque una sfida di vitale importanza per cercare di governare questi rischi, prima che si manifestino al mondo assicurativo, nella loro drammatica realtà.
Fonte: Insurance Trade
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