I farmaci biologici: che cosa sono, rischi e benefici
Articolo del 02 Marzo 2021
In base alla modalità di produzione, i farmaci possono essere suddivisi in due classi principali: i farmaci ottenuti per sintesi chimica e i farmaci biologici.
I primi sono i farmaci più comuni. La sintesi chimica permette di ottenere molecole relativamente piccole (come, ad esempio, l’aspirina o i farmaci gastro-protettori) con un alto grado di controllo sul processo produttivo e sulla qualità e riproducibilità del prodotto finale.
L’altra classe di farmaci è quella dei cosiddetti “farmaci biologici”.
Che cosa sono i farmaci biologici?
I farmaci biologici, ad esempio gli ormoni, le proteine o gli anticorpi, sono una classe di farmaci che, a causa della loro grandezza, non possono essere prodotti attraverso la sintesi chimica. È necessario, quindi, ottenerli a partire da materiale biologico.
Alcune di queste molecole vengono estratte, e in seguito purificate, da cellule cresciute in vitro in laboratorio. Altre si ottengono a partire da organi vegetali, animali o umani. Gli emoderivati come albumina, immunoglobuline e fattori di coagulazione, ad esempio, sono medicinali estratti dal sangue o dal plasma umano, ottenuto mediante donazioni volontarie. L’insulina, invece, fino a pochi decenni fa si estraeva dal pancreas di bovini e suini.
Gli straordinari progressi biotecnologici degli ultimi anni hanno permesso lo sviluppo di una nuova sottoclasse di farmaci biologici, e cioè i farmaci biotecnologici. Questi ultimi si ottengono mediante processi di estrazione e purificazione a partire da cellule modificate ad hoc grazie all’ingegneria genetica. Interi geni di interesse o più semplicemente piccole sequenze di DNA vengono isolati e modificati per creare nuovi geni con proprietà specifiche. Queste informazioni genetiche così modificate vengono poi introdotte in cellule “ospiti” in modo che il “messaggio” contenuto nel DNA si trasformi in proteine corrispondenti, in gergo ricombinanti. Le cellule ospiti funzionano come veri e propri bioreattori, grazie ai quali le proteine ricombinanti possono essere prodotte in grosse quantità.
Insulina, vaccini e proteine chimeriche: quanti diversi tipi di farmaci biologici?
L’insulina ricombinante umana, utilizzata per il trattamento del diabete, è il primo farmaco biologico ad essere stato approvato nel 1982.
Da allora molte altre proteine umane sono state prodotte per via ricombinante a scopi terapeutici, ad esempio:
- ormoni (somatotropina e gonadotropina);
- agenti fibrinolitici;
- fattori della coagulazione del sangue (FVIII e FXI);
- fattori di crescita ematopoietici (eritropoietina);
- interferoni con proprietà immunomodulatorie.
L’ovvio vantaggio della disponibilità di proteine umane ricombinanti di questo tipo è rappresentato dalla possibilità di produrle su larga scala, in maniera controllata e senza i rischi connessi all’utilizzo di molecole estratte da organi animali o umani.
Anche il vaccino per l’epatite B è un farmaco biologico: in questo caso, la proteina ricombinante è quella che riveste il virus. Gli anticorpi prodotti dal sistema immunitario in risposta a questa proteina saranno in grado di proteggerci dall’infezione. La proteina del vaccino per l’epatite B è ottenuta mediante tecnologia del DNA ricombinante in cellule di lievito. Lo stesso approccio è stato utilizzato per alcuni vaccini sviluppati per il Covid-19: in questo caso la proteina, prodotta per via ricombinante in cellule di insetto, è la cosiddetta proteina-spike, presente sulla superficie del nuovo coronavirus.
Un altro tipo di farmaco biologico è rappresentato dalle proteine di fusione, o proteine chimeriche. Queste proteine associano nella stessa molecola due o più funzioni diverse.
Un esempio è rappresentato dall’Etanercept, un farmaco biologico utilizzato per il trattamento di malattie infiammatorie croniche (ad esempio l’artrite reumatoide o la psoriasi). Una parte di questa molecola interagisce in modo molto specifico – e blocca- la citochina infiammatoria TNF-alfa; l’altra parte di molecola, fusa alla prima, è la porzione costante dell’immunoglobulina umana IgG1 (Fc), porzione che le permette di restare nel circolo sanguigno e quindi di funzionare più a lungo (in gergo a lunga emivita). Grazie a questa caratteristica, le molecole che contengono una porzione Fc (proteine di fusione o gli anticorpi monoclonali descritti in seguito) possono essere somministrate una volta ogni 2-4 settimane.
Un altro esempio è rappresentato dall’Aflibercept, un farmaco antitumorale che “fonde” tre diverse funzioni nella stessa proteina chimerica: la porzione Fc dell’IgG1 (per aumentare la durata d’azione) e due porzioni in grado di interagire – e bloccare – due diversi fattori di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF-A e VEGF-B).
Gli anticorpi monoclonali: una categoria importante di farmaci biologici
La categoria di farmaci biologici in più rapido sviluppo e con le maggiori potenzialità terapeutiche è quella degli anticorpi monoclonali, utilizzati in ambito clinico sia per scopi diagnostici che per scopi terapeutici.
In generale, gli anticorpi sono prodotti dal sistema immunitario per difendersi dall’attacco di agenti identificati come estranei (es. batteri, virus, tossine o anche componenti di cellule tumorali). Queste molecole sono proteine con una struttura ben definita che ricorda la forma di una Y: le due braccia rappresentano la porzione variabile (Fab) mentre la parte centrale rappresenta la porzione costante (Fc).
Nella produzione degli anticorpi monoclonali è proprio la parte variabile ad essere “progettata” sulla base della struttura degli agenti estranei o antigeni (ad esempio, per riconoscere la proteina spike presente sul virus del Covid-19). Questo permette all’anticorpo di legarsi con alta affinità solo a quello specifico antigene e a nessun altro. Una volta “etichettato”, l’agente estraneo innesca la risposta immunitaria che consente la sua eliminazione selettiva.
Dunque, questa caratteristica degli anticorpi di interagire in modo altamente specifico con la corrispondente molecola bersaglio è fondamentale per sviluppare farmaci efficaci e con minori effetti collaterali rispetto ai meno selettivi farmaci di sintesi.
Il grande sviluppo delle biotecnologie ha permesso di creare anticorpi monoclonali ricombinanti specifici per quasi tutti i bersagli di potenziale interesse farmacologico, modificati o meno per far sì che la loro struttura meglio si adattasse alle proprietà richieste.
La scoperta della possibilità di produrre anticorpi monoclonali risale al 1975: la tecnica prevede di iniettare nel topo l’antigene, che produce quindi al nostro posto gli anticorpi. I linfociti B del topo sono poi isolati e fusi con cellule immortalizzate, e cioè cellule che o sono derivate da tumori oppure hanno subito una modificazione genetica grazie alla quale sono diventate capaci di crescere indefinitamente.
Il complesso linfocita B-cellula immortalizzata, chiamato ibridoma, funzionerà da catena di montaggio per la produzione di grandi quantità di anticorpi monoclonali. Il termine “monoclonali” deriva dal fatto che tutti gli anticorpi prodotti provengono da cellule identiche e caratterizzate da un’unica struttura, in gergo da un unico clone.
Purtroppo, essendo murini, e cioè prodotti dal topo, una volta iniettati nell’uomo questi anticorpi possono essere riconosciuti come estranei attivando, come meccanismo di difesa, il sistema immunitario. Questo può innescare reazioni allergiche e la diminuzione dell’efficacia del farmaco biologico.
Per questo motivo, sono state sviluppate nuove tecniche che permettono di produrre anticorpi costituiti dalla porzione variabile murina e dalla porzione costante umana, definiti chimerici o umanizzati, o addirittura totalmente umani. È possibile identificare il tipo di anticorpo grazie al nome commerciale che termina sempre con “mab” (dall’inglese Monoclonal AntiBodies):
- momab per gli anticorpi murini;
- ximab per gli anticorpi chimerici;
- zumab per gli anticorpi umanizzati;
- mumab per gli anticorpi completamente umani.
Gli anticorpi monoclonali utilizzati in terapia possono essere classificati in:
- anticorpi monoclonali nudi (ossia non coniugati ad altre molecole);
- anticorpi monoclonali coniugati a farmaci chimici.
La funzione principale degli anticorpi coniugati a farmaci chimici è quella di indirizzare in modo preciso il farmaco solo sulla cellula malata e non sulla cellula sana, sfruttando la presenza di particolari antigeni. Un esempio è il trastuzumab-emtansine, utilizzato in pazienti affette da uno dei tumori mammari più aggressivi, e cioè il tumore mammario HER2-positivo. L’anticorpo si lega in maniera specifica alle cellule tumorali che mostrano sulla loro superficie una particolare proteina, chiamata recettore di HER2. Questo permette di veicolare il farmaco citotossico coniugato (l’emtansine) solo su quelle cellule, riducendo gli effetti collaterali e aumentando l’efficacia della terapia.
Qual è l’utilizzo degli anticorpi monoclonali? Vantaggi e svantaggi di questi farmaci biologici
Il primo anticorpo terapeutico ricombinante è stato approvato nel 1986. Da allora questa classe di farmaci ha conosciuto una grande crescita dovuta allo sviluppo di tecniche biotecnologiche sempre più sofisticate e alle loro potenzialità: selettività per il target biologico, minori effetti collaterali, lunga durata d’azione e quindi somministrazioni distanziate nel tempo.
Nel 2019 erano 79 gli anticorpi approvati, 18 solo nell’ultimo anno. Sono centinaia gli anticorpi monoclonali in via di sviluppo e si prevede che un’alta percentuale dei farmaci di nuova immissione in commercio apparteranno proprio a questa classe.
Quali sono, però, le loro principali applicazioni cliniche? La maggior parte degli anticorpi attualmente approvati sono:
- antitumorali
- antiinfiammatori per malattie autoimmuni
- immunosoppressivi.
In molti casi, l’introduzione dei farmaci biotecnologici ha determinato un radicale miglioramento sia per la cura che per la qualità di vita dei pazienti.
Questi farmaci hanno però anche importanti svantaggi.
Trattandosi di proteine, non possono essere assunti per bocca, in quanto verrebbero digerite nello stomaco. Nella maggior parte dei casi è necessario somministrarli con lente infusioni per via endovenosa (e quindi in ospedale), anche se più recentemente si stanno sviluppando formulazioni per iniezioni intramuscolari o sottocute.
Trattandosi di grandi molecole, non passano le barriere biologiche e quindi possono interagire solo con “bersagli” presenti sulla superfice esterna delle cellule o circolanti nel sangue. Questo ostacola ovviamente, ad esempio, la possibilità di utilizzare questi farmaci biologici per curare malattie del sistema nervoso centrale, in cui va superata la barriera che protegge il cervello (barriera emato-encefalica).
Trattandosi di molecole prodotte in altri organismi, possono venire riconosciute come sostanze estranee all’organismo, causando reazioni immunitarie (immunogenicità).
Questa rimane una importante criticità solo in parte ridotta dall’”umanizzazione” del farmaco biologico.
Infine, hanno un costo elevato dovuto soprattutto alla necessità di garantirne la qualità e la riproducibilità. Infatti, la complessità della loro struttura e la produzione ottenuta a partire da materiale biologico (difficile quindi da replicare perfettamente) possono determinare piccole differenze anche in lotti diversi di uno stesso farmaco.
Sono dunque necessarie procedure di standardizzazione in fase di produzione e rigorosi controlli post-produzione che garantiscano elevata similarità tra i differenti lotti in termini di:
- struttura
- attività biologica
- profilo di efficacia, sicurezza e immunogenicità.
I farmaci biosimilari: gli equivalenti (ovvero i generici) dei farmaci biologici
Con “farmaco biosimilare” si intende un medicinale “simile” per qualità, efficacia e sicurezza al farmaco biologico di riferimento, che entra nel mercato quando quest’ultimo non è più soggetto a copertura brevettuale.
A differenza dei farmaci “equivalenti” (o generici) ottenuti per sintesi chimica, i biosimilari non possono essere identici al farmaco “originale”, per la inevitabile variabilità nella produzione di queste molecole complesse a partire da materiale biologico.
Per questo, la loro autorizzazione richiede il superamento di controlli molto rigorosi che dimostrino la loro comparabilità con “l’originale” in termini di attività biologica, qualità, sicurezza ed efficacia.
Il primo biosimilare (somatotropina ricombinante) è stato approvato in Europa nel 2006.
Oggi sono disponibili più di 60 biosimilari e molti altri verranno introdotti a breve quando scadranno i brevetti dei corrispondenti farmaci biologici “originali”.
La disponibilità di biosimilari è molto importante per la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale, tenendo conto dell’alto costo dei farmaci biologici e del loro utilizzo sempre più diffuso. L’utilizzo di biosimilari nella pratica clinica offre infatti la possibilità di trattare più pazienti allo stesso costo e/o di riallocare i risparmi su altre voci di spesa.
Il monitoraggio terapeutico dei farmaci biologici
Come detto, le inevitabili, piccolissime differenze strutturali che possono esserci tra lotti diversi stessi dello stesso farmaco biologico o tra il prodotto originale e il suo biosimilare, sono rigorosamente valutate nei processi autorizzativi, per escludere che possano causare differenze di efficacia clinica.
Un aspetto molto più importante è rappresentato invece dalle differenze individuali tra pazienti, che possono determinare differenze importanti nell’efficacia clinica o negli effetti collaterali del farmaco. Si potrebbe verificare ad esempio che:
- in alcuni pazienti, ma non in altri, il farmaco scateni una reazione immunitaria portando alla produzione di anticorpi-antifarmaco. Poiché questi anticorpi anti-farmaco possono “neutralizzare” il farmaco stesso, i pazienti che li producono avranno una minore risposta al farmaco e maggiori effetti collaterali;
- il farmaco potrebbe essere eliminato molto in alcuni pazienti e molto poco in altri, con la conseguenza di avere quantità di farmaco nel sangue troppo basse (e quindi poco effetto) o troppo alte (e quindi possibili effetti tossici).
La misurazione delle concentrazioni di farmaco e degli anticorpi anti-farmaco nel sangue si chiama monitoraggio terapeutico. La conoscenza di queste concentrazioni permette di interpretare meglio la risposta del singolo paziente al farmaco, e quindi di orientare e personalizzare le opportune scelte cliniche.
La metodica più conosciuta di monitoraggio terapeutico è il test ELISA, il cui nome è un acronimo che sta per Enzyme-Linked ImmunoSorbent Assay o saggio immuno-assorbente legato ad un enzima. Le molecole da misurare (ad esempio i farmaci biologici presenti nel sangue) sono “catturate” dal corrispondente anticorpo legato su una superficie, e quantificate con metodi indiretti basati generalmente sulla fluorescenza. Seppure molto usato per la sua relativa semplicità, questo saggio presenta alcune limitazioni, dovute alla necessità di molti passaggi che ne aumentano il tempo di esecuzione e la riproducibilità. Studi condotti nei nostri laboratori hanno evidenziato che queste limitazioni determinano una scarsa affidabilità del saggio ELISA utilizzato per misurare gli anticorpi anti-farmaco che i pazienti possono produrre in risposta al farmaco biologico.
L’impegno del Mario Negri nell’ambito del monitoraggio terapeutico dei farmaci biologici
Nel laboratorio di Farmacocinetica e Farmacodinamica è stato recentemente sviluppato un nuovo test che consente di misurare contemporaneamente sia la concentrazione nel sangue di farmaci biologici, che la concentrazione di anticorpi anti-farmaco, cioè l’induzione della risposta immunitaria, in gergo immunogenicità.
Il nuovo test è una originale applicazione della tecnologia chiamata ‘risonanza plasmonica di superficie’, nella quale gli anticorpi di interesse (sia il farmaco e che gli anticorpi anti-farmaco) sono ‘catturati’ da un microchip che funziona da biosensore. Questo permette la misurazione immediata (in tempo reale) e precisa degli anticorpi, evitando le limitazioni della tradizionale metodica ELISA tradizionali descritta in precedenza.
Nella tecnologica della Risonanza Plasmonica di Superficie, il sangue, contenente gli anticorpi da misurare, viene fatto scorrere sul microchip sul quale sono presenti i corrispondenti antigeni. Il legame specifico tra anticorpo e antigene induce dei cambiamenti sulla superficie d’oro del microchip, la cosiddetta “risonanza plasmonica di superficie”, che viene misurata in tempo reale. L’entità del segnale misurato sarà proporzionale alla quantità di anticorpo nel sangue.
La disponibilità di questo nuovo test può favorire una più diffusa applicazione del monitoraggio terapeutico per un uso migliore e più razionale di questi farmaci, personalizzando la terapia sulla base delle caratteristiche e delle esigenze del singolo paziente, con vantaggi importanti sia per il paziente stesso che per la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale.
Fonte: TerraNuova.it