La durata delle pensioni e quei conti che non tornano mai
Articolo del 23 Febbraio 2022
La durata delle pensioni più remote ancora oggi vigenti è in media di quasi 46 anni nel settore privato e di 44 per il pubblico: prestazioni corrette sotto il profilo attuariale non dovrebbero superare i 20/25 anni. Un monito fortissimo alle forze politiche e sociali che, a fronte di una delle più elevate aspettative di vita, continuano a proporre forme di anticipazioni.
All’inizio del 2021 sono in pagamento 423.009 pensioni previdenziali per il settore privato e 53.270 per il settore pubblico con durata di ben 41 e più anni. In dettaglio, nel settore privato beneficiano di queste pensioni di durata ultra-quarantennale 343.064 donne (81,1%) e 79.945 uomini (18,9%), andati in pensione nel lontano 1980 o addirittura ancor prima. Lo scorso anno erano 502.327 con un decremento del 16% rispetto al 2020, pari a 79.318 prestazioni eliminate, molte delle quali purtroppo a causa di COVID-19; per i dipendenti pubblici delle 53.274 pensioni (erano 59.536 nel 2020), 36.372 sono appannaggio delle donne (68,3%) e 16.902 degli uomini (31,7%).
È quanto emerge dalle anticipazioni del Nono Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano elaborato dal Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali che verrà presentato il prossimo 15 febbraio al Senato della Repubblica. L’analisi ha riguardato tutte le gestioni previdenziali dell’INPS: lavoratori dipendenti, fondi speciali, ex ENPALS (lavoratori dello spettacolo), artigiani, commercianti, agricoli, Ferrovie dello Stato ed ex INPDAP per i dipendenti pubblici, le cui prestazioni decorrono e sono state liquidate dal 1980 e in anni ancora precedenti, classificate per singolo anno di liquidazione fino a quelle decorrenti dal 2020. Sono così individuati 41 gruppi di ex lavoratori classificati secondo l’anno di pensionamento per una durata che va da 41 o più anni per quelle liquidate nel 1980, o prima, fino a una durata inferiore all’anno per quelle decorrenti dal 2020, ripartite per sesso, tipo di gestione previdenziale e categoria di pensione liquidata: anzianità, vecchiaia, prepensionamento, invalidità e superstiti (in sigla AVPIS), con l’indicazione, rilevata dagli Osservatori Statistici INPS, dell’età media rispettivamente posseduta dai maschi e dalle femmine al momento del pensionamento.
Questi pensionati sono andati in quiescenza con età medie di 39,7 anni per gli uomini e 42,3 per le donne per quanto riguarda il settore privato e 39,3 per gli uomini e 42,1 per le donne nel settore pubblico; età molto basse anche a causa di baby pensioni, prepensionamenti e pensioni di invalidità che, a quel tempo, venivano usate come oggi si utilizzano APE sociale, precoci, Opzione Donna e gravosi, il che dovrebbe far molto riflettere politica e sindacati. Giusto per fare un confronto, le età medie possedute dai lavoratori privati andati in pensione nel 2020 sono per anzianità, vecchiaia, prepensionamenti, invalidità e superstiti rispettivamente 61,9; 67,4; 62,1; 54,8; 77,4 per i maschi, mentre per le donne le età medie per ciascuna categoria sono 61,3; 67,3; 61,8; 53,5; 74,3 (dati in anni e decimi di anno). Età medie ancora particolarmente basse soprattutto per anzianità, prepensionamenti e invalidità previdenziale, con potenziali durate superiori ai 25 anni.
La durata delle pensioni erogate dal 1980 o prima nel settore privato e ancora oggi vigenti è in media di quasi 46 anni (età media attuale meno età media alla decorrenza) e nel settore pubblico di quasi 44 anni e non tengono conto, ovviamente, di quelli che sono andati in pensione a età più mature ma che sono deceduti. Si tratta di un dato molto importante e che deve far riflettere i decisori politici e i rappresentanti dei lavoratori che chiedono, come la recente Commissione guidata da Cesare Damiano, continue riduzioni delle età di pensionamento introducendo quella che abbiamo definito una “giungla delle pensioni”.
Occorre inoltre considerare che, affinché il sistema resti in equilibrio, è necessario un giusto rapporto tra il periodo della vita lavorativa e la durata della pensione per evitare eccessive durate o scarsi periodi di vita attiva che penalizzerebbero i lavoratori che oggi con i loro contributi, giovani in testa, consentono il pagamento delle pensioni all’attuale generazione di pensionati, e anche nei confronti dei tanti lavoratori che accedono alla pensione a età regolari. Se non si aggancia l’età di pensione alla speranza di vita, i rischi sono quelli che emergono da durate quarantennali di pensioni sorte molti anni fa per esigenze spesso elettorali e ancor oggi in pagamento: schiere di lavoratori mandati in quiescenza in età giovani in seguito a norme che, tra il 1965 e il 1997, hanno permesso a lavoratrici statali sposate e con figli di andare in pensione dopo 14 anni 6 mesi e 1 giorno di servizio utile, compresi i riscatti di maternità e laurea (una laureata con 2 figli poteva lavorare anche per 8 anni e poi pensionarsi dopo aver versato pochi anni di contributi), oppure 19 anni 6 mesi e 1 giorno di lavoro per gli statali maschi. Per i dipendenti degli enti locali il diritto a pensione scattava dopo 25 anni, consentendo così pensionamenti con 20-25 anni di contribuzione (sempre compresi il riscatto della laurea, la maternità o il militare). I prepensionamenti sono stati usati come ammortizzatori sociali e gli oneri relativi sono stati scaricati sul “conto pensioni” e non sul “sostegno al reddito”, come fanno molti Paesi UE, e come avviene per gli altri tipi di ammortizzatori sociali.
Infine, le pensioni di anzianità erano consentite prima dei 50 anni con 30 anni di contribuzione e fino al 1981 erano in vigore requisiti troppo permissivi per ottenere le prestazioni di invalidità e inabilità. Eppure, ancor oggi assistiamo a proposte di pensionamento con 63 anni di età e 32 di contributi, regola applicata a edili e ceramisti con La legge di Bilancio per il 2022; e si tratta di una mediazione perché i sindacati, anziché riorganizzare il lavoro prevedendo mansioni correlate alle età e allo stato di salute, chiedevano 30 anni di contributi. Cosa pensate che faranno questi pensionati? Se va bene staranno al bar ma la maggior parte di loro a 62 anni farà lavori in nero, alla faccia della lotta all’evasione fiscale.
Ci vorranno ancora molti anni per ridurre le anomalie del passato che ancor oggi appesantiscono il bilancio del sistema pensionistico: un monito per i fautori delle troppe anticipazioni tipo Quota 100, gravosi, APE sociale. Considerando anche che sono 2.321.000, pari a circa il 14% dei pensionati totali, anche le pensioni con durata 30 anni e più, liquidate quindi fino al 1991 nei settori pubblico e privato e tuttora in pagamento. Se pensiamo che la percentuale di contributi versati è meno della metà della prestazione incassata (33% di contributi per i dipendenti e 73% la pensione) e il periodo effettivo lavorativo – al netto della contribuzione figurativa – è di circa 30 anni in media, risulterà evidente a chiunque che questi importi e durate sono insostenibili, non solo in termini attuariali ma anche facendo un semplice conto artigianale. E ciò mette a serio rischio la tenuta stessa del sistema pensioni.