Le persone affette da long COVID potrebbero avere ancora proteine spike nel sangue
Articolo del 27 Luglio 2022
L’ormai famigerata condizione del long COVID si presenta con un’ampia gamma di sintomi, dai dolori toracici persistenti alle eruzioni cutanee, dai formicolii alla nebbia cerebrale. I medici possono diagnosticarla parlando con i pazienti della loro esperienza prima e dopo l’infezione iniziale, ma i ricercatori non hanno ancora individuato le cause del disturbo né un possibile trattamento. Parte della difficoltà risiede nel fatto che non c’è ancora un modo per misurare i segnali biologici delle infezioni da long COVID nell’organismo e avviare il processo di sperimentazione di nuovi trattamenti. Ora alcuni ricercatori potrebbero aver trovato un marcatore di questa condizione invalidante: un frammento di SARS-CoV-2, il virus che causa il COVID, che rimane nel sangue di alcuni soggetti affetti dal long COVID ben oltre l’infezione iniziale.
In un articolo non ancora sottoposto a peer review ma caricato sul server di preprint medRxiv nel mese di giugno, gli autori hanno riferito di aver rilevato un frammento di SARS-CoV-2 in campioni di sangue di persone affette da long COVID fino a un anno dopo l’infezione iniziale. Il frammento è una proteina spike, una delle protuberanze di SARS-CoV-2 che conferiscono a questo virus il caratteristico aspetto a corona da cui deriva il suo nome. Durante l’infezione iniziale da SARS-CoV-2, la proteina spike si frammenta tipicamente in pezzi più piccoli quando penetra nelle cellule umane, ma le proteine spike osservate in questo studio erano ancora intere.
Illustrazione di proteine spike di SARS-CoV-2
I ricercatori hanno cercato la proteina spike usando una tecnica progettata per identificare le singole proteine. Hanno aggiunto microsfere rivestite di anticorpi al plasma sanguigno di 37 persone a cui era stato diagnosticato il long COVID. I campioni sono stati prelevati due o più volte nel corso di un anno dall’infezione iniziale da COVID dei pazienti e confrontati con il plasma di un gruppo di controllo di 26 persone completamente guarite dalla malattia. Le microsfere sono progettate per illuminarsi quando entrano in contatto con la proteina specifica che si lega all’anticorpo presente nel loro rivestimento. La presenza e l’intensità del cambiamento possono essere utilizzate per determinare sia la presenza della proteina ricercata sia la sua quantità.
La proteina spike intatta trovata nel sangue dei pazienti potrebbe indicare che la colpa del long COVID è delle cellule infette non individuate dal sistema immunitario. “La nostra ipotesi principale è che la proteina spike non sia la causa dei sintomi, ma solo un marcatore che viene rilasciato perché alcune cellule sono ancora infettate da SARS-CoV-2”, afferma la coautrice dello studio Zoe Swank, ricercatrice presso il Brigham and Women’s Hospital di Boston.
Quando una cellula viene infettata da un virus come SARS-CoV-2, il patogeno crea copie di se stesso all’interno della cellula. Se la cellula muore, esplode, potenzialmente rilasciando nel sangue le proteine spike intatte. Le cellule possono anche rilasciare piccoli pacchetti di proteine e altri materiali, tra cui particelle virali avvolte in uno strato di membrana cellulare. Queste sono note come “vescicole extracellulari” e potrebbero essere un altro modo con cui le proteine spike possono entrare nel flusso sanguigno senza rompersi. In ogni caso, questi meccanismi richiedono un serbatoio del virus da qualche parte nel corpo.
“Normalmente, una volta eliminata l’infezione, non si dovrebbe vedere la proteina spike, perché tutti gli anticorpi prodotti eliminerebbero tutto ciò che entra nel flusso sanguigno”, spiega Swank. Invece, suggerisce la ricercatrice, tessuti come quelli dell’intestino e del cervello potrebbero essere un rifugio per SARS-CoV-2 all’interno dell’organismo, impedendo ai pazienti con long COVID di eliminare completamente l’infezione e fungendo da fonte di proteine spike. “Forse il virus può persistere lì, eludendo in qualche modo il sistema immunitario. ”
Questa ipotesi è in linea con altre prove del fatto che il COVID colpisce più parti del corpo, non i soli polmoni: tre studi hanno trovato SARS-CoV-2 negli organi di pazienti deceduti. Questo studio di preprint non esclude comunque altre possibili cause di long COVID, soprattutto perché non tutti i pazienti affetti da long COVID avevano la proteina spike nel sangue.
“La presenza di proteine virali circolanti può essere utile per identificare quale sottogruppo di pazienti affetti da long COVID possa avere un’eziologia virale persistente” – la versione del long COVID causato dalla presenza continua di SARS-CoV-2 nell’organismo – afferma Akiko Iwasaki, immunologa alla Yale University, che non ha partecipato allo studio. “Il resto dei soggetti affetti da long COVID potrebbe soffrire per altre cause.”
Queste altre cause potrebbero includere una risposta immunitaria esagerata che porta l’organismo dei pazienti con COVID a sviluppare proteine immunitarie – “autoanticorpi” – che attaccano le proprie cellule nello stesso modo in cui attaccherebbero un intruso, come un virus o un batterio. Questi autoanticorpi sono stati trovati nell’organismo delle persone durante un’infezione iniziale di COVID, così come in alcuni pazienti long COVID. Un’altra possibilità è che un’infezione da COVID renda le persone più sensibili ad altri virus già presenti nell’organismo, come il virus di Epstein-Barr. Questo agente patogeno è dormiente nella maggior parte delle persone, ma è risultato riattivato in alcuni pazienti con long COVID.
Per Swank, la parte più promettente del nuovo studio è che il segnale della proteina spike intatta è stato osservato solo in campioni di persone a cui è stata diagnosticato il long COVID da due a 12 mesi dopo essersi ammalati per la prima volta di COVID e non in pazienti che hanno avuto solo un’infezione iniziale. La scoperta suggerisce che questa proteina spike trovata nel sangue potrebbe essere un “biomarcatore”, specifico per long COVID.
“A mio avviso, questo studio, se confermato, potrebbe cambiare le carte in tavola”, afferma Michael Peluso, ricercatore biomedico ed esperto di malattie infettive dell’Università della California a San Francisco, che non ha partecipato allo studio. “Uno dei principali ostacoli alla progettazione e all’implementazione di studi sui trattamenti per long COVID è che, mentre possiamo chiedere alle persone come si sentono, finora non c’è stato un marcatore chiaro e oggettivo, misurabile nel sangue delle persone affette da long COVID”.
Gli scienziati potrebbero misurare la quantità di un biomarcatore affidabile presente nel sangue di un paziente prima e dopo la somministrazione di farmaci come gli antivirali. Se la quantità di quel biomarcatore diminuisse, ciò potrebbe indicare che il trattamento sta funzionando. “È stato piuttosto difficile mobilitare le risorse per implementare gli studi di trattamento del long COVID, anche se tutti sono d’accordo sulla loro necessità”, afferma Peluso. “L’identificazione di biomarcatori dell’attività di malattia renderebbe probabilmente molto più fattibile l’avvio di questi studi”.
La strada da percorrere, tuttavia, è ancora lunga. Il preprint è ancora in attesa di peer review e prende in esame solo un piccolo campione di persone affette da long COVID diagnosticate nello stesso ospedale, la maggior parte delle quali era di sesso femminile. Inoltre, i ricercatori non avevano accesso a campioni di sangue relativi a più di cinque mesi dopo l’infezione iniziale da COVID per i pazienti che non erano affetti da long COVID.
Per confermare i risultati sarà necessario analizzare i campioni di sangue di un gruppo più ampio e rappresentativo di persone affette da long COVID e confrontarli con i campioni di sangue di persone completamente guarite dal COVID, raccolti mesi e anni dopo l’infezione iniziale. In futuro, Swank e i suoi coautori sperano di utilizzare campioni di sangue raccolti nel corso della pandemia da più ospedali per estendere il loro studio a centinaia di persone.
“Spero che i loro risultati siano validi”, afferma Peluso. “Credo che farebbe davvero la differenza per molte persone se un marcatore come questo potesse essere convalidato.”
Fonte: Le Scienze