L’uso eccessivo di antibiotici altera il sistema immunitario intestinale. Scoperta IEO
Articolo del 26 Marzo 2021
Una cover per smartphone in grado di monitorare il battito cardiaco, la pressione e la temperatura corporea, oltre che capace di attivare una chiamata di emergenza in caso di infarto. Un cerotto che combina il sangue della ferita con biomateriali per dimezzare i tempi di guarigione, senza cicatrici. Un esocheletro per la riabilitazione degli arti inferiori in caso di disabilità neuromotorie. O, ancora, un esame del sangue virtuale che, grazie all’Intelligenza Artificiale, con una sola goccia è in grado di diagnosticare in tempo reale anche le malattie infettive, incluso il Covid-19.
Queste sono solo alcune delle innovazioni tecnologiche in campo biomedico su cui potremo contare nei prossimi anni, ma che rischiavano di rimanere sulla carta, chiuse in un cassetto. Il trasferimento tecnologico è un processo affascinante quanto complicato: non è mai stato facile concretizzare le proprie idee innovative, figuriamoci in mezzo a una pandemia globale, soprattutto quando si tratta di nuovi dispositivi medici.
Se questi dispositivi innovativi diventeranno realtà è grazie a Primary Site, progetto-pilota di Confindustria Dispositivi Medici, Mind (Milan Innovation District), LendLease e gruppo San Donato: tutto è nato con l’obiettivo di “rendere accessibile l’innovazione per la salute, fornendo supporto concreto per l’iter di commercializzazione di nuove tecnologie nel campo dei dispositivi medici. Prodotti che richiedono da parte di Pmi e start-up un notevole impegno economico, organizzativo e scientifico”, spiega Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria Dm. Dalla call, avviata lo scorso anno, sono stati quindi selezionati i progetti di Artiness, Biocubica, Eyecode, LightScience, Omnidermal Biomedics, Prometheus, Quicklypro, Silk Biomaterialsm, U&O e Wise. I prodotti di queste 10 realtà italiane sono ora in sperimentazione clinica al Galeazzi di Milano, mentre l’incubatore è alla ricerca di investitori che possano finanziare i prossimi passi per arrivare alla marcatura CE e quindi all’utilizzo.
I tempi vanno dai sei mesi ai due anni. La commercializzazione di un dispositivo medico è, infatti, preceduta da una serie di validazioni e registrazioni: un iter ancora più lungo con l’introduzione delle nuove regole europee per la commercializzazione, sovrapponibili a quelle per i farmaci, in vigore da maggio. Tutto questo, “troppo spesso, costituisce un divieto di accesso al mercato a start-up e Pmi già dalla fase di validazione di sicurezza e di efficacia clinica, fasi indispensabili per la registrazione. Questa situazione, insieme con la mancanza di un supporto strutturale da parte di investitori pubblici e privati e di una semplificazione della burocrazia, ha fatto in modo che, nonostante la capacità di fare ricerca di qualità eccellente nel nostro Paese, i risultati siano stati ampiamente inferiori al potenziale”, prosegue Boggetti, che con Primary Site vuole creare un nuovo indotto virtuoso per aiutare il settore a ripartire.
L’idea è di fare sistema per poter supportare il trasferimento tecnologico nel campo dei dispositivi medici in un momento cruciale come quello dell’entrata in vigore della nuova normativa europea, salvaguardando le eccellenze italiane e sopperendo alle mancanze strutturali del sistema. “La pandemia ha sicuramente rallentato il processo di innovazione. Il Covid ha anche risucchiato tutto l’interesse del mondo medico-scientifico e, in queste condizioni, riuscire a portare avanti dispositivi che si rivolgono ad altri ambiti, seppur sempre medici, è ancora più complicato. Il tempo perso non è più recuperabile, ma possiamo accelerare, nella speranza che l’Italia diventi più sensibile e inizi a sostenere concretamente le imprese innovative. E’ da anni che il settore dei dispositivi medici paga lo scotto della spending review della Sanità pubblica. E come se non bastasse, oltre a non beneficiare dei ristori, è all’esame della Camera una nuova tassa nella legge delega che introdurebbe il versamento di una quota dello 0,75% del fatturato per le aziende che vendono device al Sistema sanitario nazionale. Inutile dire quanto sia difficile andare avanti così per un settore che conta 4300 imprese, di cui solo il 5% è di grandi dimensioni”.
Il rischio concreto per il comparto dei dispositivi medici (i cui dati fondamentali sono riassunti nel grafico in alto) è l’espatrio: “Paesi come la Francia o la Gran Bretagna stanno attuando politiche di attrazione delle industrie in questo settore, mentre qui continua un atteggiamento che può solo spingere a disinvestire”.
Fonte: La Stampa