Media e Covid-19: il caso degli anticorpi monoclonali
Articolo del 02 Marzo 2021
Nelle ultime settimane c’è stata una grande attenzione mediatica sull’utilizzo degli anticorpi monoclonali in Italia per trattare i pazienti Covid-19 nelle fasi iniziali della malattia. Questi farmaci, le cui caratteristiche e la cui efficacia sono anche state trattate in un precedente articolo su Scienza in rete, sono stati spesso presentati come “molto efficaci” da media, virologi, politici e portatori di interessi vari.
Stampa e talk show politici hanno ampiamente riportato di un incontro tenutosi il 29 ottobre scorso, in cui l’azienda farmaceutica Eli Lilly avrebbe offerto gratuitamente 10.000 dosi del farmaco bamlanivimab all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) per l’avvio di una sperimentazione clinica in Italia. Questo studio sarebbe stato proposto da un immunologo italiano che lavora negli Stati Uniti all’amministratore delegato di Lilly, di cui è amico. L’immunologo e diversi altri famosi opinion leader hanno aspramente criticato l’AIFA che, come riferito in modo insistente da media e Lilly, avrebbe rifiutato sia l’offerta gratuita del farmaco – ritenuto sicuramente efficace nonostante la mancanza in quel momento di dati pubblicati – sia di procedere all’approvazione di emergenza di tali anticorpi monoclonali per i pazienti Covid-19, come avvenuto in USA e più recentemente in Germania e Ungheria.
In un comunicato stampa, l’AIFA ha specificato di non aver mai ricevuto alcuna proposta di cessione gratuita, uso compassionevole o fornitura all’interno di un contesto di sperimentazione clinica del farmaco bamlanivimab e di aver ricevuto solo una richiesta di approvazione alla vendita, basata su dati limitati e in deroga alla normativa europea, che prevede un processo centralizzato di approvazione.
Il 21 gennaio sono stati finalmente pubblicati i risultati di uno studio controllato randomizzato che ha testato bamlanivimab e la sua combinazione con etesivimab (n = 421) vs placebo (n = 156) su pazienti Covid-19 con sintomi precoci, mostrando un impatto nullo o limitato sulla carica virale e una riduzione statisticamente non significativa (cioè con un grado di incertezza ancora piuttosto rilevante dato il campione ridotto dello studio) dell’esito combinato di ospedalizzazione e visite al pronto soccorso: da circa 6 pazienti su 100 trattati nel gruppo placebo a 1 su 100 nel gruppo monoclonali. In altri termini, 5 pazienti ogni 100 trattati (nelle condizioni ideali di uno studio) hanno evitato un ricovero e 95 su 100 non hanno visto cambiata la propria storia clinica. L’impatto sulla mortalità non è stato invece neanche misurato.
Questi risultati hanno ottenuto pochissima copertura dai media italiani: nella migliore delle ipotesi sono stati mostrati come riduzioni di rischio relative (circa 5% rispetto a un rischio di base di circa il 6% significa in termini relativi una riduzione superiore all’80%) piuttosto che assolute e senza specificare la mancanza di significatività statistica e di dati sulla mortalità. Media e opinion leader hanno continuato a insistere sull’incomprensibile rifiuto da parte dell’AIFA dell’offerta della Lilly, che ha impedito all’Italia di essere il primo Paese europeo a far uso di questi farmaci per i malati Covid-19. Nessuno ha evidenziato la non plausibilità di tale presunta offerta di 10.000 dosi (per un valore di oltre 10 milioni di euro) per sperimentare in Italia un farmaco peraltro difficile da produrre, dopo averlo testato su soli 421 pazienti Covid-19 in uno studio multicentrico negli Stati Uniti. C’è stata, inoltre, una limitata diffusione di informazioni sulla carenza (che era ancora maggiore alcuni mesi fa) di dati relativi al profilo benefici-rischi di questi farmaci e sulle raccomandazioni delle linee guida internazionali contro l’uso di routine di questi farmaci in pazienti ambulatoriali.
Dopo aver ricevuto una richiesta in merito dal Ministero della Salute e in seguito ai primi risultati pubblicati, non essendo attualmente disponibili terapie efficaci per pazienti ad alto rischio con sintomi precoci, il 4 febbraio AIFA ha rilasciato il proprio parere sulla possibilità di offrire questi prodotti come opzione terapeutica per tali pazienti e rilasciato un’autorizzazione all’uso in emergenza, sebbene a fronte di una continua rivalutazione sulla base di nuove prove disponibili e sulla base delle decisioni dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA), che che solo il 26 febbraio ha espresso un parere favorevole. Per l’acquisto di questi farmaci verrà utilizzato il fondo da 400 milioni previsto nella legge di bilancio, che servirà anche per l’acquisto dei vaccini.
Esiste un grande bisogno di farmaci efficaci per i pazienti Covid-19, in particolare per quelli a domicilio a rischio di evoluzione della malattia che potrebbero necessitare di ricovero in ospedale o in terapia intensiva. Gli anticorpi monoclonali potrebbero essere considerati farmaci promettenti in situazioni molto specifiche, anche se con dati ancora parziali. Casi aneddotici riportati dai media, come quello di Donald Trump, hanno aumentato l’interesse sui questi prodotti; questo nonostante i costi molto elevati (superiori a 1.000 euro per trattamento), le difficoltà di produzione e di gestione di trattamenti che devono essere utilizzati nelle primissime fasi della malattia e che dunque richiedono informazioni tempestive sulla positività, decisioni altrettanto tempestive su quali pazienti possano beneficiarne, strutture dedicate per permettere la loro infusione e la successiva osservazione per poter trattare tempestivamente eventuali effetti avversi, cercando allo stesso tempo di ridurre al massimo il rischio di portare pazienti positivi all’interno di strutture dove sono spesso presenti pazienti immunocompromessi.
Si continua a stigmatizzare il “ritardo italiano” che ci permetterà di ottenere in marzo solo quindicimila dosi di questi farmaci (“briciole”) mentre la Germania che si è mossa in anticipo di dosi ne ha già ottenute duecentomila. Non ci si domanda se le nostre siano davvero poche dosi considerando la popolazione eleggibile nella pratica clinica “reale”, ovvero persone a rischio entro 72 ore dai sintomi, con tampone positivo e immediatamente gestibili in strutture ambulatoriali/ospedaliere (per le quali nelle condizioni “ideali” dello studio non è neanche stata raggiunta una riduzione statisticamente significativa nei ricoveri): in quanti risponderanno a questo identikit?
Più che enfatizzare casi aneddotici bisognerebbe guardare ai dati di studi rigorosamente controllati e condotti su ampie casistiche, oltre che alla trasferibilità dei dati nella pratica clinica (dati gli aspetti di cui sopra) e le possibili diseguaglianze di accesso. Per questo la stessa AIFA ha emesso un bando per realizzare uno studio che fornisca dati “robusti” e chiarisca i possibili profili di utilizzo di questi farmaci, considerati anche a rischio di perdere efficacia a causa di ceppi virali resistenti.
Va sottolineato come il ruolo dei media in tutta questa vicenda sia stato molto lontano dall’ideale di fornire informazioni trasparenti e basate su prove, alimentando opinioni di esperti (spesso espresse con la presunzione di chi rivendica competenza esclusiva) e controversie basate su pettegolezzi non sostenuti dai dati, che potrebbero essere mirate a perseguire interessi di parte piuttosto che di salute pubblica. Sarebbe importante che i media si abituassero (e abituassero i propri lettori) all’uso di dati presentati in modo trasparente. Sarebbe altresì opportuno affrontare in modo serio il potenziale impatto delle relazioni industria/esperti vs media sulla politica sanitaria e sulla salute pubblica, definendo codici di condotta e altri possibili modi per limitare pratiche che non aiutano la comprensione da parte del pubblico, nello specifico per quanto riguarda la salute e gli interventi per preservarla. Questo sforzo dovrebbe essere guidato da riviste scientifiche e media propriamente indipendenti: chi è pronto a farlo?
Fonte: Scienza in Rete