Sulle tracce delle “cellule della memoria”

Articolo del 03 Dicembre 2020

Oltre un secolo fa, lo zoologo Richard Semon coniò il termine “engramma” per designare la traccia fisica che un ricordo lascia nel cervello, come se fosse un’impronta. Da allora i neuroscienziati hanno fatto progressi nella caccia al modo preciso in cui il nostro cervello forma i ricordi, scoprendo che quando creiamo un ricordo si attivano certe cellule specifiche che si riattivano quando lo riportiamo alla memoria, rinforzando i collegamenti tra i neuroni coinvolti.

Questo cambiamento imprime i ricordi nel nostro cervello e ci permette di tenere vivi quelli che richiamiamo alla memoria più spesso, mentre gli altri sbiadiscono. Però le alterazioni fisiche che avvengono all’interno dei nostri neuroni per condurre a questi cambiamenti si sono rivelate difficili da determinare. Finora.

In uno studio pubblicato lo scorso mese, alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology hanno stabilito che una parte importante del processo di creazione dei ricordi avviene a livello molecolare nei cromosomi delle “cellule engramma”. I neuroscienziati sapevano già che la formazione dei ricordi non è istantanea e che l’atto di richiamare qualcosa alla memoria è cruciale per fissare un ricordo nel cervello. Ora i ricercatori hanno trovato parte dell’incarnazione fisica di questo meccanismo.

Il gruppo di ricerca del MIT ha lavorato con topi nel cui genoma era stato inserito un marcatore fluorescente, in modo che le cellule si illuminassero ogni volta che esprimevano il gene Arc, associato alla formazione dei ricordi. I ricercatori hanno messo questi topi in un ambiente nuovo e li hanno addestrati a temere un certo rumore, poi li hanno riportati in quell’ambiente diversi giorni più tardi per riattivare il ricordo. Nella zona del cervello chiamata ippocampo, le cellule engramma che formavano e richiamavano alla mente quel ricordo si illuminavano, rendendo facile distinguerle al microscopio dalle altre cellule cerebrali in un’esame autoptico.

Guardando nel nucleo di queste cellule engramma, i ricercatori hanno individuato cambiamenti sottili nell’architettura della cromatina (l’insieme di DNA e proteine regolatrici che compone i cromosomi) mentre prendeva forma il ricordo. Parti della cromatina si riorganizzavano in modo che i geni associati alla memoria potessero entrare in azione più rapidamente per rafforzare e conservare il ricordo. “In pratica l’intero processo di formazione della memoria è un evento di priming”, afferma Li-Huei Tsai, direttrice del Picower Institute for Learning and Memory al MIT e coautrice e coreponsabile della ricerca.

Riscaldamento per i ricordi
La conclusione non era chiara all’inizio dell’esperimento. Subito dopo la formazione del ricordo non c’erano grandi differenze nel modo in cui erano espressi i geni delle cellule engramma. Però i ricercatori hanno notato alcuni cambiamenti strutturali nella cromatina: alcune parti del DNA diventavano più accessibili, spostandosi in modo da non essere coperte dalle proteine della cromatina o da altri tratti di DNA. In questo modo i geni in quel DNA erano più accessibili agli enhancer (o intensificatori), elementi genetici che possono aumentare l’attivazione dei geni.

Qualche giorno più tardi i ricercatori hanno notato altri cambiamenti. Il DNA si era spostato ancora, in modo che molti enhancer fossero ora più vicini ai geni specifici su cui agiscono. Ciò nonostante, continuavano a non esserci grandi cambiamenti nel modo in cui i geni erano espressi. “Ero rimasto molto deluso all’epoca”, afferma Asaf Marco, ricercatore post-dottorato al MIT e autore principale dello studio. “Non aveva alcun senso”.

Quando però i topi sono stati messi nuovamente nell’ambiente in cui avevano formato quel ricordo, si aveva un picco dell’espressione del gene. I cambiamenti strutturali degli enhancer erano allineati con questi schemi di attivazione, portando a collegamenti più stretti tra i neuroni coinvolti. È stato a questo punto che Marco ha capito che i cambiamenti nell’architettura della cromatina preparavano le cellule a rafforzare i ricordi quando questi venivano richiamati alla mente.

“È un po’ come il riscaldamento prima di un allenamento”, spiega Steve Ramirez, ricercatore in scienze psicologiche e della mente alla Boston University. Quando si formano i ricordi, le cellule engramma si preparano a esprimere i geni che creano e rafforzano i collegamenti tra loro. Però le cellule traggono vantaggio da queste alterazioni latenti solo quando il ricordo è richiamato di nuovo alla mente. “Sono pronte a far partire e a rendere possibile il processo del ricordare”, continua il ricercatore. “Come idea è molto allettante”.

Nell’ultimo decennio circa, vari gruppi di ricerca che studiano le cellule engramma hanno iniziato a sospettare che i cambiamenti strutturali della cromatina preparassero la cellula a formare e preservare i ricordi. “Ci abbiamo pensato tutti, ma questo è un articolo straordinario che lo dimostra effettivamente”, commenta Iva Zovkic, ricercatrice di psicologia all’Università di Toronto. Inoltre il gruppo di ricerca del MIT ha rafforzato l’idea con nuovi tipi di prove, separando le fasi della formazione del ricordo e del momento in cui esso è richiamato alla mente, in modo da vedere quando i cambiamenti strutturali entrano in gioco. “È davvero un modo molto più diretto di qualunque altra cosa fatta in precedenza”, aggiunge Zovkic.

Negli ultimi anni, nuove tecnologie in grado di analizzare i cambiamenti genetici e cellulari su scala minuscola hanno portato a una nuova rinascita delle di neuroscienze ricerca sulle cellule engramma, afferma Ramirez. All’improvviso è possibile collegare i comportamenti a cambiamenti molecolari nei sistemi cerebrali. “Una delle cose più interessanti di questo articolo – aggiunge – è che arriva a un livello di dettaglio senza precedenti. È davvero magico vedere le cose con quel livello di risoluzione.”

Studiare l’architettura
Tuttavia, neanche gli strumenti più all’avanguardia sono in grado di seguire così da vicino la formazione dei ricordi negli animali vivi, perciò i ricercatori non possono osservare questo processo negli esseri umani altrettanto da vicino. I processi sono stati studiati nei topi, ma forse le cellule umane non seguono gli stessi schemi quando codificano ricordi più complessi e sovrapposti. “In questa fase è molto difficile valutare quanto di queste scoperte si può riportare alla ricerca sull’uomo”, afferma Shawn Liu, ricercatore di fisiologia e biofisica cellulare alla Columbia University.

È comunque un dato di fatto che uomini e topi abbiano in parte gli stessi circuiti per la memoria. Questo studio ha osservato le cellule dell’ippocampo, una struttura ricurva che si trova vicino al centro del cervello in entrambe le specie ed è essenziale per l’apprendimento e la memoria. Le differenze tra l’ippocampo umano e quello dei topi limitano l’applicabilità dei risultati dello studio, ma all’interno di questo nuovo sottocampo di ricerca i dati sono convincenti. “Il priming come modello per spiegare la formazione dei ricordi è una teoria molto allettante”, afferma Tsai.

Ulteriori esperimenti come questo potranno restringere il campo delle cellule che seguono effettivamente questi schemi, spiega Ramirez, e aiutare a capire se gli schemi siano gli stessi per tipi diversi di ricordi, come momenti ricchi di emozione, abilità fisiche o informazioni visive. Si potrebbe così arrivare a un principio più ampio per spiegare la formazione delle memorie, che a sua volta potrebbe indirizzare nuove terapie per problemi come il disturbo post-traumatico da stress o la malattia di Alzheimer, nei quali i ricordi sono troppo persistenti o, al contrario, non lo sono abbastanza. Capire a livello molecolare il modo in cui il cervello fissa alcuni ricordi e ne perde altri può offrire varie opportunità di influire sull’invecchiamento, l’apprendimento e altri processi essenziali.

C’è molto altro da scoprire su questi cambiamenti nell’architettura della cromatina. Molti tipi di fattori ambientali, come l’alimentazione e lo stress, possono influire sulla disposizione del DNA e delle proteine della cromatina, con effetti a cascata sull’espressione dei geni e sul comportamento delle cellule. Nuove ricerche potranno anche esaminare le tante parti di DNA che non controllano direttamente la sintesi di proteine né hanno altri effetti evidenti nel cervello.

“Al momento trascuriamo il 95 per cento del genoma”, spiega Marco. Gli è stato insegnato a considerare quella parte come DNA spazzatura. Ma, come gli enhancer che guidano questo aspetto della codificazione dei ricordi, anche il resto di quei geni potrebbe avere ruoli cruciali. “Anche se abbiamo completato la mappatura del genoma, per la maggior parte ancora non lo capiamo”, conclude.

 

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