Un quadro o un volto: le due declinazioni della bellezza nel cervello
Articolo del 14 Marzo 2021
Le neuroimmagini svelano nuovi indizi sul senso estetico: ecco come si attivano le diverse aree neuronali.
da sempre sfuggente, la bellezza. Inseguita dagli uomini, fin dalla preistoria. Cercata da filosofi, poeti, artisti. E scienziati. Gli antichi Greci avevano coniato il concetto il concetto di kalokagathia, per coniugare kalòs e agathòs, il bello e il buono. Nato come ideale militare e cavalleresco, si spostò nelle sfere dell’arte, della politica e dell’etica. Ma gli Elleni ammiravano anche l’aristeia, il furore guerriero che trasfigura l’eroe in battaglia, fino a portare Diomede a ferire Afrodite, dea della bellezza, oltre che dell’amore; e Neottolemo, il figlio di Achille, a percuotere il re Priamo a morte con il corpo del nipote bambino Astianatte, forse la scena più splatter tra quelle evocate dall’incendio di Troia.
Una scena, raffigurata su crateri e coppe, che oggi si potrebbe avere qualche perplessità a definire “bella”, tantomeno “buona”. E che, nello specchio del neuroimaging, accenderebbe aree diverse del cervello da quelle illuminate dal discobolo di Mirone, che viene dalla stessa cultura, o dal padiglione da tè della villa imperiale di Katsura a Kyoto, lontano migliaia di chilometri nello spazio e secoli nel tempo dagli esempi precedenti. Già, la bellezza è mobile, anche nelle sinapsi. Su questa strada hanno provato a seguirla i ricercatori dell’università Tsinghua di Pechino, campus che rivaleggia con l’americano Mit per l’eccellenza in materia tecnologica. Il team cinese, condotto da Hu Chuan Peng e Yi Huang, ha messo in discussione che nel nostro cervello esista un solo centro operativo in grado di elaborare gli stimoli che vengono identificati nell’idea di bello.
È questo il Graal sulle cui tracce si sono mossi i neuroscienziati cognitivi di tutto il mondo negli ultimi anni, raccogliendo una quantità di indizi, non conclusivi. Le teorie prevalenti hanno situato il punto B (chiamiamolo così per indicare la bellezza) nella corteccia orbitofrontale, importante per il processo decisionale; o nell’insula, cruciale per regolare le emozioni, l’omeostasi corporea e che ha un ruolo pure nel controllo motorio, nelle percezioni, nel processo cognitivo e nell’autoconsapevolezza. Il neurobiologo britannico Semir Zeki, ad esempio, ha ipotizzato che i mobiles di Alexander Calder, sculture sospese, leggere e oscillanti, attivino il centro del cervello preposto al movimento. Il premio Nobel Eric Kandel, nel suo libro “L’età dell’inconscio: arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni”, invoca i neuroni specchio per l’esperienza estetica di fronte a un dipinto di Gustav Klimt.
Lo studio cinese non tratta direttamente dell’esperienza estetica, anche se focalizza sulla percezione del bello e il termine estetica ha proprio quella matrice nella lingua greca antica. I neuroscienziati della Tsinghua hanno assemblato e incrociato 49 studi diversi con 982 partecipanti in una meta-analisi per calibrare una stima di probabilità di attivazione (“Ale”, per “Activation Likelihood Estimation”). Lo scopo: verificare se percezioni di tipo diverso, ma comunque riconducibili al senso del bello, facciano vibrare la stessa zona del cervello. Insomma: se il “beauty center” cerebrale esiste davvero e dov’è. Nel dettaglio, i ricercatori hanno osservato le reazioni a opere d’arte visiva, dipinti figurativi, soprattutto, e a fotografie di volti umani percepiti come belli dai partecipanti agli esperimenti.
L’esame incrociato delle fMri (functional Magnetic Resonance Imaging) ha rivelato che, mentre la visione artistica stimola la corteccia prefrontale mediale, dove vengono processate le funzioni cognitive superiori, la sfilata di facce belle accende il corpo striato ventrale sinistro. Anche qui entrano in gioco emozioni e processi cognitivi. Ma le aree sono diverse. E il modo di rielaborare gli stimoli “estetici” è tutto da indagare.
Il punto riguarda anche il senso della bellezza. È platonicamente innato e scientificamente radicato in uno o più centri cerebrali? O è un frutto cangiante della storia, del cammino dell’uomo, come pensano alcuni biologi evoluzionisti, che mettono in relazione la pittura paesaggista con l’esperienza degli ominidi, i quali da un belvedere potevano scorgere prede e predatori e sentirsi in posizione di vantaggio? Se la bellezza è già ambigua nelle prime culture, in seguito si ramifica. E si influenza reciprocamente con le scienze. La Cabala ebraica vede nei numeri una bellezza intrinseca, riflesso della divinità (come molti fisici teorici di oggi valutano una teoria dall’eleganza matematica). Il Medioevo cristiano identifica la bellezza con lo spazio sacro, simbolo del trascendente, anche se il popolo è stupito dalle folle di demoni scolpiti che si proiettano fuori dalle mura delle cattedrali. L’ideale di bellezza islamico risiede in un giardino stilizzato ed edenico, a cui si richiamano anche gli stili di scrittura araba. Il Rinascimento è ossessionato dalle proporzioni, dalla sezione aurea. Alla fine del 1800, lo psicologo Gustav Fechner constatò la preferenza dei suoi pazienti per le figure rettangolari con i lati con un rapporto di 1,618 (la sezione aurea appunto). L’architettura cinese tradizionale con il Feng Shui ha seguito la bellezza delle linee curve anziché dritte (come parte del modernismo catalano di Gaudì).
Di certo, il cervello dell’uomo moderno è in grado di apprezzare la cattedrale di Reims e una pagoda indiana. La musa che ha assistito Botticelli è certamente diversa da quelle inquietanti dipinte da De Chirico e da quella terribile che ha guidato Picasso nel “Guernica” (la stessa del pittore di Neottolemo a Troia, anche se con un segno diverso). Come il cervello le processa è ancora una questione aperta. La questione si allarga con le arti: come s’incrociano nelle regioni cerebrali i versi di Omero e quelli dei Surrealisti, le sinfonie di Vivaldi e l’atonalità di Schoenberg? Esiste uno smistamento? Forse i centri della bellezza sono tanti, quanti le muse. Forse più. Lo studio dell’università Tsinghua è un passo verso le regioni più intime della nostra mente.
Fonte: La Stampa