Vaccino AstraZeneca, tutte le ragioni per cui l’Ema sta ancora frenando
Articolo del 04 Gennaio 2021
Tempi di somministrazione incerti e diversi dai protocolli, errori di dosaggio nei trial clinici, assenza di dati: ecco perché le più famose autorità al mondo non hanno dato il via libera e la comunità scientifica è scettica.
Un pasticcio pericoloso, con molti punti oscuri, e troppe domande che attendono risposte convincenti. Così buona parte della comunità scientifica giudica la vicenda del vaccino AstraZeneca/Oxford/IRBM, frettolosamente approvato in Gran Bretagna e poi in India ma sul quale, non a caso, EMA, FDA e CADTH (Canadian Agency for Drugs and Technology in Health) invitano alla prudenza, in attesa che arrivino i molti chiarimenti chiesti all’azienda, e ribadiscono che, nella migliore delle ipotesi, saranno necessari alcuni mesi per il via libera.
E sul quale riviste come Science non hanno utilizzato mezze misure, definendo una “follia” l’autorizzazione britannica. Ma quali sono questi aspetti ancora poco chiari, e come si è arrivati a una situazione così ingarbugliata, e nella quale la politica ha avuto e ha un’enorme responsabilità e sta rischiando molto, prendendo decisioni che potrebbero rivelarsi del tutto controproducenti?
L’Inghilterra rincorre la nuova variante
Innanzitutto, per quanto riguarda la Gran Bretagna, va tenuto presente il contesto. Il paese, governato fino dalle prime settimane con un atteggiamento ondivago, e il cui premier Boris Johnson aveva messo in conto, inizialmente, un certo numero di decessi (un’idea non del tutto scomparsa), oggi fa i conti con la famigerata variante B 1.1.7, che rappresenta ormai metà dei casi e che, essendo dotata di maggiore contagiosità, ha fatto schizzare l’incidenza quasi stabilmente sopra i 50.000 casi giornalieri, e i decessi attorno ai mille.
Inoltre AstraZeneca è un’azienda anglosvedese, e il Governo aveva puntato su questo vaccino, prenotandone 100 milioni di dosi e facendo affidamento sui bassi costi e sulla maneggevolezza del prodotto, decisamente più gestibile rispetto a quello di Pfizer e a quello di Moderna.
Per questo ora la sua agenzia, che lavora con i propri ricercatori e non deve coordinare le analisi di 17 paesi come accade all’EMA, ha deciso di dare il via libera, e di cambiare le con dizioni. In quella che è stata giudicata una specie di crisi di panico, negli ultimi giorni il Joint Committee on Vaccination and Immunisation (JCVI) ha anche autorizzato, sia pure in via del tutto eccezionale, la somministrazione di vaccini diversi, qualora non sia disponibile la dose del richiamo del primo vaccino, anche se basati su principi diversi come nel caso di AstraZeneca e Pfizer.
Eppure i dati, pubblicati su Lancet, avevano detto altro, nella sperimentazione di fase 3 – quella che, con la forza dei numeri, deve mostrare in via definitiva l’efficacia e la sicurezza di qualunque medicinale – condotta su oltre 30.000 persone in contemporanea in Brasile, Sud Africa e Gran Bretagna, con una sola interruzione, in Brasile.
Com’è nato l’errore del dosaggio
Nello studio si spiega infatti che mentre lo schema previsto, con due dosi piene, ha portato a un’efficacia del 62% (cioè: su 100 persone vaccinate, solo 62 sono al riparo dai sintomi del Covid), uno schema diverso, costituito da mezza dose iniziale più una dose piena, ha innalzato quel valore al 90%.
La conclusione è, secondo l’azienda, che l’efficacia media è del 70%. Questa interpretazione ha suscitato un coro unanime di critiche, perché sono stati assimilati statisticamente dati ottenuti con protocolli diversi e, oltretutto, quel 90% riguardava solo 1.300 persone, tutte giovani con meno di 55 anni.
Le agenzie regolatorie EMA e FDA hanno chiesto che fosse condotta una nuova sperimentazione, più ampia, con il nuovo schema, e anche su soggetti più anziani, ma la risposta è stata un no secco: i dati necessari, secondo AstraZeneca, sono già disponibili.
Ma come sono andate veramente le cose, come è stato possibile un simile, grossolano errore? La ricostruzione dei fatti che hanno portato all’errore nel dosaggio è illuminante. A fornirla ci ha pensato l’agenzia di stampa Reuters, che ha consultato l’allegato al lavoro di Lancet – ben 1.100 pagine di documenti – reso disponibile dalla stessa azienda e ha pubblicato, il 24 dicembre, un lungo resoconto.
Una differente misurazione tra Italia e Inghilterra
Nello scorso mese di maggio IRBM, l’azienda di Pomezia incaricata di sintetizzare il vettore virale, un adenovirus del raffreddore di primate, invia in Gran Bretagna il suo lotto K.0011 titolato, cioè misurato, con la tecnica della PCR quantitativa, che definisce la quantità di materia virale per millilitro di soluzione.
I tecnici di AstraZeneca misurano nuovamente la concentrazione virale del lotto, con un altro metodo di analisi, la spettrometria, basata sulla luce. E trovano una concentrazione doppia rispetto a quella attesa. Poiché questo tipo di test era stato usato in tutte le fasi precedenti, chiedono all’agenzia britannica Medicines and Healthcare products Regulatory Agency (MHRA) di considerare valido il loro risultato ed errata la misurazione italiana, e di iniettare, di conseguenza, metà dose, pensando così di raggiungere un dosaggio omogeneo, di due dosi intera.
Ottengono il via libera, e procedono. Ma il dosaggio italiano era corretto, e quello inglese sbagliato: da qui la somministrazione incidentale di mezza dose al posto di una. Questo passaggio spiega quanto la pressione stia agendo sui decisori: in altri tempi, con ogni probabilità, prima di vaccinare 1.300 persone con un prodotto sperimentale per il quale ci fossero discrepanze nei dosaggi, si sarebbe chiesto a entrambe le parti, l’IRBM e AstraZeneca, di condurre nuovi test per capire esattamente quanto virus c’era in quel lotto. Test che, è opportuno sottolineare, richiedono al massimo qualche ora.
Ma in questo caso si è deciso che non si potevano perdere neppure poche ore, e si è proceduto. L’azienda non sa spiegare la maggiore efficacia dello schema con 1,5 dosi, e secondo alcuni osservatori essa potrebbe essere dovuta non alle dosi ma al fatto che i tempi tra la prima dose e il richiamo, a causa dell’errore, si sono allungati e questo avrebbe permesso al sistema immunitario di reagire meglio.
La posizione degli scienziati di Oxford
In seguito alla pubblicazione di questa inchiesta, Sarah Gilbert e Adrian Hill, i responsabili del pasticcio e di tutta la sperimentazione su questo vaccino, hanno affermato che non si è trattato di uno sbaglio ma di una scelta, cioè dello studio di variazioni di dosaggio (non presenti però nei protocolli ufficiali): senza fornire alcuna prova.
Ma come ha sottolineato la Reuters, entrambi, detengono il 10% delle azioni di Vaccitech, lo spin off dell’Università di Oxford che ha messo a punto il vaccino, e poi ne ha ceduto i diritti alla stessa università. La quale ora guadagna, insieme a loro, sul prodotto AstraZeneca.
Dopo quante settimane la seconda dose?
Le tempistiche della somministrazione sono state al centro del passaggio successivo. Nell’approvare il vaccino, la MHRA ha affermato di avere dati che dimostrano un’efficacia dell’80% quando le due dosi sono distanziate di tre mesi e non, come indicato inizialmente dall’azienda, di 21 giorni: una differenza non da poco.
Per questo lo schema suggerito, che prevede due dosi piene, lascia libertà di azione: la seconda dose va data in un periodo di tempo compreso tra le 4 e le 12 settimane dalla prima. Ciò potrebbe consentire di ampliare rapidamente la platea dei vaccinati, potendo aspettare molto di più per i richiami. Ma, ancora una volta, non sono stati forniti spiegazioni né dati su un’efficacia che sarebbe superiore a quella dello studio di Lancet, ma che è stata ottenuta con uno schema diverso e sulla quale, al momento, non ci sono dati che la comunità scientifica possa valutare autonomamente.
Questo ha spaccato i medici inglesi: se la British Medical Association ha definito la decisione irragionevole, e totalmente fuori luogo, altri si sono dichiarati entusiasti della possibilità di vaccinare più persone. Intanto l’azienda ha rilanciato affermando, in un suo video aziendale su YouTube, e di nuovo senza fornire prove, di poter raggiungere il 100% di protezione, per poi dire anche, pochi giorni dopo, ancora una volta senza rendere noti i dati, che il vaccino sarebbe efficace anche contro la variante B 1.1.7, e che la produzione per la sola Londra sarà di due milioni di dosi a settimana.
I vaccini a vettore virale
Lo studio di Lancet riportava due casi di mielite trasversa, giudicati probabilmente non collegati al vaccino. Per il resto, non si segnalano tossicità preoccupanti, a parte quelle presenti anche negli altri. Ma resta il fatto che i vaccini come questo, negli ultimi anni, sono stati al centro di numerose sperimentazioni, e non sono quasi mai arrivati in fondo, anche per problemi di sicurezza.
I vaccini a vettore virale sono costituiti da un virus inoffensivo nel quale è inserito il DNA della proteina che, una volta sintetizzata dall’organismo umano, scatena la reazione immunitaria. Il loro limite principale risiede nel fatto che, essendo il vettore un virus, l’organismo umano può reagire anche contro di esso perché può avere già incontrato virus simili.
Quando ciò accade, vanifica il processo di sintesi della proteina virale in tutto o in parte, e causa, a volte, reazioni immunitarie indesiderate. Per questo si cercano i virus adatti, da somministrare in dosi che non siano né eccessive né troppo basse, e per questo per altre malattie quali Ebola o l’AIDS si è proceduto a indagini preventive sulle popolazioni di interesse, per verificare se fossero o meno già immunizzate contro i vettori.
Lo studio di combinazione con Sputnik V
Per questo, anche, AstraZeneca ha deciso di procedere con uno studio di combinazione, che sarà condotto in Ucraina, in cui il primo vaccino iniettato sarà il suo, e quello del richiamo sarà quello russo Sputnik V, molto discusso per la poca trasparenza dei dati, basato sullo stesso approccio ma su un altro vettore.
Come ha ricordato la rivista The Scientist in un esaustivo articolo dedicato ai vaccini con vettore virale, finora l’EMA ne ha autorizzato solo uno, contro Ebola, costituito da due vettori diversi, mentre altri, come appunto quelli contro l’HIV e la malaria, sono fermi alla sperimentazione, che continua a incontrare ostacoli. E, per tutti, mancano i dati post-immissione in commercio: anche per questo bisognerebbe essere più che prudenti con questo tipo di vaccini.
Ciò spiega anche perché abbia suscitato ulteriori critiche la decisione di AstraZeneca , denunciata dal New York Times, di far produrre il suo vaccino a un’azienda cinese, la Kangtai Biological Products che, in passato, ha prodotto un vaccino errato contro l’epatite B che nel 2013 avrebbe causato la morte di 17 bambini.
Le cautela delle principali agenzie del farmaco
Infine, questo chiarisce perché l’EMA, la FDA e la CADTH chiedano nuovi test e soprattutto molti più dati prima di concedere il via libera a protocolli molto diversi da quelli originari, in due variabili fondamentali quali le dosi e i tempi, a tutela della salute di centinaia di milioni di persone.
E questo, per quanto riguarda l’EMA, nonostante l’Unione Europea abbia prenotato 400 milioni di dosi proprio di questo vaccino. Andrebbe forse ricordato più spesso che la sperimentazione è appunto tale, si fa per avere risposte, e che le percentuali medie di successo dei vaccini che arrivano alla fase 1 dei test sui volontari è del 20%: solo uno su cinque giunge al mercato, non di più (ed è un valore già doppio rispetto a quello dei farmaci).
È quindi fisiologico che alcuni non riescano a ottenere i risultati sperati, e quello di AstraZeneca potrebbe essere uno di questi: se l’efficacia delle due dosi piene fosse del 62%, potrebbe essere considerata insufficiente (per una percentuale simile il vaccino GlaxoSmithKline/Sanofi sta ricominciando le sperimentazioni con dosaggi diversi da quelli iniziali).
La MHRA la pensa diversamente, e ritiene di poter assicurare una certa immunità di gregge anche con questo vaccino. Tuttavia, se si scoprissero tossicità inattese, o se la protezione fosse troppo bassa, e molte persone si ammalassero nonostante la vaccinazione, la fiducia nei vaccini crollerebbe e, con essa, la speranza di uscire dalla pandemia in tempi ragionevoli.
La speranza riposta in altri vaccini
Ci sono altri 5 vaccini in sperimentazione nell’uomo basati su vettori virali, e molti altri su altri approcci, in alcuni casi vicini alle fasi finali, con ottimi segnali quanto a efficacia e sicurezza: come ben testimoniano numerosi articoli ed editoriali pubblicati sulle principali riviste scientifiche nelle ultime settimane, al momento la comunità scientifica internazionale è più che prudente su quello di AstraZeneca, proprio per tutti i comportamenti disinvolti e opachi emersi in queste settimane, e sembra puntare su altro.
Come ha ricordato lo scrittore giapponese Haruki Murakami nella sera di capodanno, in un programma televisivo cui ha partecipato con il premio Nobel per la fisiologia del 2012 (per i suoi studi sulle cellule staminali) Shinya Yamanaka, c’è solo un modo per ottenere la collaborazione dei cittadini e aiutarli a tenere sotto controllo l’ansia e l’irrazionalità che ne consegue: dire loro la verità, sempre. Anche quando non è quella che si aspettano.