Vitamina D e COVID-19, nuove evidenze

Articolo del 30 Dicembre 2020

Numerosi studi continuano ad evidenziare uno stretto rapporto tra COVID-19 e carenza di Vitamina D, inserendo come variabile anche alcuni fattori ambientali come l’esposizione solare.

La pandemia da Coronavirus si è manifestata con caratteristiche peculiari e la Ricerca scientifica, per lo più orientata verso la sintesi di anticorpi specifici in grado di contrastare gli effetti del virus e la produzione di un vaccino, non ha sino ad ora fornito sufficienti risultati sulle caratteristiche della malattia, sui meccanismi che ne favoriscono l’aggressione all’uomo, sugli obiettivi biologici verso i quali indirizzare un trattamento farmacologico e neppure sulle caratteristiche immunologiche del virus. Tutto ciò rende purtroppo molto problematiche le strategie difensive che ad oggi, di fatto, sono limitate alle indiscutibili misure di distanziamento fisico e di igiene individuale.

Vitamina D, quale funzione?

Nel marzo scorso, sulla base di dati scientifici teorici, avevamo ipotizzato che il decorso clinico del COVID-19 fosse influenzato, in senso negativo, da ridotti livelli di Vitamina D nel sangue.
La Vitamina D è nota da tempo per la sua capacità di stimolare la produzione di anticorpi in grado di difenderci dalle malattie, soprattutto da quelle infettive e virali (link 1) (link 2), ed era pertanto plausibile ipotizzare un suo coinvolgimento anche nei meccanismi che sviluppano le più nefaste conseguenze del COVID-19. Successivamente si è verificato un intenso dibattito a livello internazionale documentato da moltissimi dati scientifici (oltre 300 lavori editi nel 2020) che confermerebbero questa ipotesi, sebbene non siano ancora disponibili rigorosi e controllati studi prospettici.
In generale, la nostra ipotesi ha trovato conferma da studi ottenuti “sul campo” che hanno analizzato l’andamento clinico dei Pazienti e la loro risposta al trattamento con Vitamina D. Dagli studi è emerso che la presenza di ridotti livelli di Vitamina D era collegata ai casi da COVID 19 in forma severa e ad un più sfavorevole decorso clinico in presenza appunto di una ipovitaminosi più pronunciata.

Vitamina D e COVID-19, nuove evidenze

Le evidenze degli studi

Fra i numerosi studi analizzeremo quindi quelli che prendono in considerazione l’utilizzo della Vitamina D per la prevenzione e per il trattamento dei pazienti COVID-19, e dai quali emergono alcune evidenze che è importante sottolineare:

  1. In uno studio osservazionale condotto su 154 Pazienti, la prevalenza di soggetti carenti di Vitamina D (con valori inferiori ai 20 ng/mL) è risultata del 31,9% negli asintomatici e del 96,9% in quelli che si sono aggravati al punto tale da richiedere un ricovero in terapia intensiva (link 3)
  2. In uno studio randomizzato su 76 Pazienti con scarsa sintomatologia, la percentuale di soggetti per i quali successivamente è stato necessario il ricovero in terapia intensiva è stata del 2%, se trattati con dosi elevate di Vitamina D (calcifediolo) e del 50% nei Pazienti non trattati (link 4)
  3. In 77 soggetti anziani ospedalizzati per COVID-19, la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo se assunto nell’anno precedente o al momento della diagnosi (link 5)
  4. In una sperimentazione clinica su 40 Pazienti asintomatici (o con sintomi lievi) è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei Pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo (60.000 UI/die per 7 giorni) (link 6)

Da questi e da altri studi si può desumere che la Vitamina D sia più efficace contro il COVID-19, se somministrata con obiettivi di prevenzione (link 7) soprattutto nei soggetti anziani, fragili e ospiti in strutture di assistenza, e in dosi elevate.

I fattori ambientali

Considerando pertanto la presenza di un crescente consenso sul ruolo positivo della Vitamina D nel contrastare gli effetti clinici della pandemia e volendo contribuire ad apportare ulteriori conoscenze sull’argomento, abbiamo recentemente pubblicato sulla rivista “Science of the Total Environment” (link 8) uno studio clinico-ecologico, sviluppato in collaborazione con ricercatori dell’ARPA, dell’ENEA, delle Università di Bologna e di Roma La Sapienza.
Considerando che in Italia la grande maggioranza dei decessi da COVID-19 (95,4%) si è verificata in Pazienti con più di 60 anni, soprattutto fra la popolazione residente in nord Italia, e che il loro numero si è drasticamente ridotto dalla fine di maggio all’inizio di ottobre 2020, abbiamo esplorato la possibilità che l’evoluzione dell’epidemia COVID-19 veda coinvolti, tra i molteplici meccanismi di trasmissione, alcuni fattori ambientali.
Per questo motivo abbiamo valutato la diffusione spaziale della pandemia in Italia durante il periodo della sua prima ondata (febbraio-maggio 2020) e abbiamo evidenziato correlazioni statisticamente molto significative fra il numero di deceduti e di Pazienti affetti da COVID-19 registrati in ciascuna regione italiana e l’intensità della radiazione ultravioletta (UV) solare, valutata nel semestre giugno-dicembre 2019 alla superficie terrestre, in tutte le regioni, mediante rilevazioni sia satellitari che al suolo.

Il ruolo dell’esposizione solare

Gli effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del virus SARS-CoV-2 e sulle sue complicanze cliniche potrebbero essere la conseguenza di una maggiore sintesi di Vitamina D verificatasi nel precedente periodo estivo nelle popolazioni delle regioni meridionali, ma anche di una possibile capacità di distruggere il virus tramite l’esposizione solare.
Di conseguenza abbiamo auspicato che vengano organizzate campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sugli effetti sia positivi che negativi dell’esposizione alla radiazione solare e sul consumo alimentare di cibi contenenti la Vitamina D, oltre alla la sua assunzione tramite farmaci o integratori, naturalmente sempre sotto controllo medico.
Ciò potrebbe adeguatamente compensare l’ipovitaminosi D (carenza di Vitamina D) che è molto diffusa nel nostro Paese (link 9) e contribuire al contenimento della pandemia, soprattutto nei soggetti anziani, fragili, obesi e rinchiusi in comunità.

Quali prospettive?

Nonostante la presenza di numerose evidenze scientifiche, l’impiego della Vitamina D nella prevenzione e nella terapia del COVID-19 non è stato al momento preso in considerazione dal nostro Ministero della Salute secondo il quale “non esistono, ad oggi, evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato”. Il Governo britannico ha invece previsto di supplementare con vitamina D 2,7 milioni di soggetti a rischio di COVID-19 (gli anziani, la popolazione di colore e i residenti nelle RSA).
È importante ricordare che la vitamina D (in particolare il Colecalciferolo), anche ad alte dosi, non presenta sostanziali effetti collaterali (link 10) e che è utile per correggere una situazione di specifica carenza generale della popolazione, soprattutto nel periodo invernale, indipendentemente dall’infezione da SARS-CoV-2; recentemente dunque 65 Medici e Ricercatori italiani hanno trasmesso alle Istituzioni nazionali e regionali un documento propositivo, diffuso dall’Accademia di Medicina di Torino (link 11), che contiene il suggerimento di approfondire l’utilità della Vitamina D nella prevenzione generale e nel trattamento dei Pazienti COVID-19.

 

Fonte: Elisir di Salute

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